
Anno di prima pubblicazione: 1995
Edito da: Feltrinelli
Voto: 7,5/10
Pagg.: 208
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Barnum è una raccolta di articoli di giornale, quelli scritti da Baricco, nella prima metà degli anni '90, per l'omonima rubrica della sezione cultura e spettacoli de La Stampa.
Un autore che, di quei tempi, si era già fatto notare con due romanzi originali e innovativi (Castelli di rabbia e Oceano mare), un monologo teatrale di successo (Novecento), nonché alcuni saggi interessanti (su tutti L'anima di Hegel e le mucche del Wisconsin).
Innanzitutto, ciò che si nota in Barnum è che lo stile rispecchia esattamente (o quasi) quello delle opere narrative dello scrittore torinese: frasi brevi e concise, calore ed empatia verso il lettore.
Baricco ha il merito di ergersi ad ambasciatore della cultura per il popolo, cercando di espandere il più possibile la base di pubblico da raggiungere con i suoi scritti.
E c'è da dire che l'impresa sembra riuscire, grazie ad una proprietà di linguaggio e ad un'abilità narrativa, che a tratti ricordano vagamente quelle di Calvino. Un paragone che può sembrare azzardato, ma neanche più di tanto per chi ha letto le opere di entrambi gli autori. Poi, certo, Calvino è un monumento, entrato di diritto nella storia della letteratura italiana. Sarà il tempo a stabilire se una sorte analoga toccherà a Baricco, oggi bersagliato dalla critica e dall'intellighenzia snob del Paese, che inconsciamente non gli perdonano questa sua capacità di rivolgersi a tutti (quasi come se fosse di per sé un motivo di biasimo).
Dicevo della proprietà di linguaggio: forbito ma chiaro, scorrevole e sciolto, naturale pur apparendo geometricamente studiato per agevolare la comprensione.
Questo suo merito, per così dire populistico, gli ha attirato le critiche dei puristi, forse un po' invidiosi del grande successo ottenuto.
Gli articoli di Barnum sono tra loro
indipendenti, ancorché nelle intenzioni dell'autore essi trovino un
collegamento nella proclamata ratio di analisi del mondo dello
spettacolo a fini comparativi.
Oggetto delle similitudini è il circo
(in senso metaforico e provocatorio), come il titolo stesso
suggerisce.
Baricco ci parla del pianista
Sviatoslav Richter, uno dei tre più bravi di sempre, insieme a
Liszt, secondo il critico musicale Piero Rattalino.
Richter, oramai inesorabilmente
invecchiato (ha quasi 80 anni quando Baricco scrive), suona a Roma.
Le differenze rispetto alla partitura sono evidenti agli ascoltatori. Ma gli
errori, i salti di nota, sono per Baricco armonicamente e
melodicamente coesi, come in una sorta di Guernica per pianoforte.
Ecco: Baricco è capace di queste metafore, di queste intuizioni
comparative. Peccato però che quando si accorge della bontà del
boccone decida di masticarlo troppe volte, con evidente finalità
autocelebrativa.
Il circo è anche in politica,
ovviamente. E quale assist migliore può arrivare allo scrittore, se
non quello dei coloriti comizi di Bossi del post-tangentopoli.
Dicevamo dello stile: breve, diretto.
Baricco ha l'ardire di schierarsi
contro uno del calibro di Proust, rispetto al quale si pone
stilisticamente agli antipodi. Certo, ci vuole del fegato (o della
spocchia), un'incredibile fiducia nei propri mezzi (o
un'incredibile arroganza), per criticare uno come Proust. Eppure - non ricordo più in quale libro - Baricco si permise di dare all'autore della Recherche, in un'ipotetica pagella agli scrittori, una striminzita sufficienza. Un sei.
Due stili agli antipodi, dicevo. Certo: Proust scriveva periodi eternamente lunghi, ragionati, cerebrali, ma armonici. Baricco è conciso e imprevedibile. Frasi nominali in abbondanza. È uno capace di mettere un punto ogni tre parole, come in quelle due frasi di Seta che mi sono rimaste impresse nella mente, nella loro meravigliosa semplicità:
“Comprava e vendeva. Bachi da seta.”
Colpito e affondato. Le rilessi una decina di volte, quella sera di non so quanti anni fa, cercando di cogliere il fascino magnetico che stava dietro quelle banali parole.
Lo stile di Baricco affascina e inquieta allo stesso tempo. Proprio così.
Ma Proust e Proust.
Eppure lo scrittore torinese torna a pungerlo, in Barnum, nell'articolo in cui parla di Hubert Selby Jr., autore di Ultima fermata a Brooklyn, che definisce “un grande, un grande davvero, uno dei maestri, uno che lo leggi e poi non scrivi più uguale a prima. Una specie di Celine newyorkese”. Ed ecco la frecciata: “la realtà non si spalma sul mondo con la geometria di una bella frase proustiana: la realtà va a capo quando non te l'aspetti, se ne frega della punteggiatura, non ha una voce narrante che ti tranquillizza, e non ha dialoghi ma gente che parla”.
Se l'esaltazione di Selby Jr. è un'implicita (ma neanche tanto) ammissione di ispirazione stilistica, quest'ultima frase è allora un riconoscimento alla paternità di una forma espressiva che proprio in Baricco è decisamente ricorrente.
Barnum e lo sport: lo squash e la
comica descrizione della parete dove si scagliano le palline, che
nella mentalità del giocatore dovrebbe rappresentare lo sfogo alle
frustrazioni della quotidianità. Banale? Forse.
Molto meglio con la pallanuoto come
metafora del libero mercato: al di sopra dell'acqua virtuosismi e bel
gioco; al di sotto, scorrettezze continue e colpi bassi.
Baricco regala, qua e là, qualche
curiosità sconosciuta ai più: in particolare ci racconta
dell'ennesima perla di nazionalismo dei nostri cugini transalpini,
gli unici a porre la “F” del Franco (anziché l'universale
simbolo del dollaro) sul deposito di denari di Zio Paperone. Era il
1995, chissà com'è oggi con la moneta unica.
Ma lo scrittore torinese è anche
capace, parlando di libri, di infondere una grandissima curiosità.
Vedi ad esempio la recensione di Prateria, di William Least
Heat-Moon. Un indiano d'America che descrive una sperduta e desolata
contea del Kansas. Da un nulla geografico, da un luogo che è un
non-luogo, ne esce un poema trasudante saggezza.
E che dire di quando Baricco espone
tutto il suo biasimo per l'utilizzo della musica classica a fini
commerciali (pubblicità, suonerie, melodie di attesa al centralino):
“Ogni tanto, dall'austero grembo della musica colta scivolano via
brandelli di repertorio per andare a popolare i tinelli dell'anima
della gente tutta (…). Una morte lentissima e desolante: non si
uccidono così nemmeno i cavalli”. Come non dargli ragione. Mi
vengono in mente un'infinità di esempi. Chopin trasformato in
sottofondo di uno spot di prodotti caseari. Una melodia immortale che
da quel momento sarà etichettata e volgarizzata con quel banale
riferimento. E ve le ricordate le suonerie polifoniche dei primi
cellulari, quelle con la 40 di Mozart? Cose che fanno rabbrividire.
Un altro paragone che mi sento di
azzardare, leggendo Baricco, è quello con il Woody Allen scrittore:
un continuo salto tra serio e faceto, con inversioni di similitudine.
Ossia: un'analisi seria, condita da una similitudine comica e
popolare. O viceversa. Tipo quando paragona il regolamento del gioco
del pallone elastico con lo schematismo trascendentale kantiano.
Baricco è così, prendere o lasciare.
A tratti ti affascina, a tratti ti fa incazzare come una iena, come
nell'ultimo articolo che chiude la raccolta. Nell'ultimo capoverso
dell'ultimo articolo ad essere precisi. L'ho letto e avrei voluto
lanciare il libro nella piscina di fronte alla quale mi trovavo.
È il Baricco eccentrico che pensa di potersi permettere di fare lo spiritoso a quel modo.
La scelta di mettere quell'articolo alla fine del libro, con quella frase che diventa la frase conclusiva dell'intero libro, è sicuramente voluta.
Una frase eccentrica e stupida, posta eccentricamente a conclusione di una riflessione.
Ad ogni modo - volendo dare un giudizio generale all'opera senza farmi influenzare, in modo intellettualmente più che onesto, dal nervosismo endemico provocato dalla frase conclusiva - di questo libro convincono l'umorismo colto e onnipresente, nonché il tentativo di analizzare eventi-spettacolo (veri o loro malgrado) seguendo l'ideale di fondo secondo cui tutto è show, tutto è descrivibile come tale.
[ Appunti sparsi 2007 ]
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