Anno di prima pubblicazione: 1979
Edito da: Baldini Castoldi Dalai
Voto: 10/10
Pagg.: 427
Traduttore: Giuliana Giuliani
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Ci sono libri che si incrociano quasi per caso, incidentalmente. Libri sconosciuti ai più, o dimenticati. Libri che sono scampati per miracolo al “fuori catalogo”, e chissà per quanto ancora lo faranno.
Ci sono questi libri, che poi quando li leggi te ne innamori e ti chiedi come sia possibile.
Come possa essere così sconosciuto, mentre quell'altro, decisamente inferiore, è invece sulla bocca di tutti.
Ho scoperto questo libro di Theroux nel mio periodo “patagonico”, appena tornato da un viaggio in quelle meravigliose terre e volendo cominciare a leggere tutto il leggibile su quei posti splendidamente desolanti.
Come possa essere così sconosciuto, mentre quell'altro, decisamente inferiore, è invece sulla bocca di tutti.
Ho scoperto questo libro di Theroux nel mio periodo “patagonico”, appena tornato da un viaggio in quelle meravigliose terre e volendo cominciare a leggere tutto il leggibile su quei posti splendidamente desolanti.
A dire il vero ero addirittura titubante ad eleggere “L’ultimo treno della Patagonia” tra i componenti di tale lista di letture.
A dispetto di quanto possa sembrare dal titolo, infatti, parla ben poco dell’isolata e inospitale regione meridionale del Cile e dell’Argentina.
Nel 1978, lo scrittore di viaggi Paul Theroux, statunitense di origine franco-italiana, decise di intraprendere un lungo viaggio attraverso le Americhe, a tre anni di distanza dall’uscita del suo libro più famoso (ciò nonostante inedito in Italia), The Great Railway Bazaar - by train through Asia, il diario della sua epica esperienza in treno dalla Gran Bretagna al Giappone.
Un viaggio a mezzo rotaia che, appunto, si apprestava a effettuare nuovamente, questa volta tra Nord e Sud America.
Partendo da Medford, Massachusetts, sobborgo di Boston e sua città natale e di residenza, per giungere fino in Patagonia, alla cittadina di Esquel, capolinea dell’ultimo treno della Patagonia, l’Old Patagonian Express, il Viejo Expreso Patagonico.
Un treno mitico, tra i più australi del pianeta, da non confondere con il Patagonia Express, il treno (questo sì il più a sud del mondo) che viaggia tra la città cilena di Rio Turbio e quella argentina di Rio Gallegos, e che è protagonista di uno dei racconti dell’omonimo romanzo di Sepulveda.
L’Old Patagonian Express partiva dalla città di Ingeniero Jacobacci, in piena Patagonia, per giungere, per l’appunto, a Esquel. Oggi è diventato un’attrazione turistica, anche per via del suo scartamento ridotto, della locomotiva a vapore e dei vagoni insolitamente piccoli. È chiamato affettuosamente La Trochita.
È il 1978. È passato un anno dalla pubblicazione e dal successo di “In Patagonia”, dell’amico Bruce Chatwin.
Theroux lega questo suo progetto di attraversamento del continente americano allo sviluppo di una propria teoria del viaggio oltre che di un peculiare ideale di narrativa di viaggio:
“Il viaggio è qualcosa di evanescente, è un percorso solitario lungo una sottile linea geografica, verso l’oblio. (…) Ma un libro di viaggi è l’opposto: c’è la persona solitaria che rimbalza indietro più grande del naturale, per raccontare la storia del suo esperimento con lo spazio. È la forma più semplice di narrativa, una descrizione che giustifica il gesto del far le valigie e andare. È movimento a cui si da ordine ripetendolo a parole. È un genere elementare di sparizione, ma pochi tornano in silenzio.”
“È il tragitto che conta, non l’arrivo; il percorso, non l’atterraggio. Sentendomi truffato dai libri di viaggio e chiedendomi che cosa mi veniva in realtà negato, decisi di verificarlo e di addentrarmi nel paese del libro di viaggio arrivando fin dove mi avrebbero portato i treni. Sarei partito da Medford, in Massachusetts, e il mio libro si sarebbe concluso dove altri cominciano. (...)
Studiai varie carte geografiche e mi sembrò che ci fosse una via continua dalla mia casa di Medford al grande altopiano della Patagonia, nel sud dell’Argentina. Là, nella città di Esquel, la ferrovia terminava; non c’era alcuna linea per la Tierra del Fuego, ma da Medford a Esquel ce n’erano un bel po’. In questo stato d’animo da girovago salii sul primo treno, quello che la gente prendeva per andare a lavorare. A mano a mano gli altri scesero, il loro viaggio in treno era già finito; io rimasi su, il mio era appena cominciato.”
Theroux comincia con un’introduzione meta-letteraria che critica la narrativa di viaggio tradizionale, quella che cerca a tutti i costi il colpo ad effetto o l'incipit affascinante:
Theroux comincia con un’introduzione meta-letteraria che critica la narrativa di viaggio tradizionale, quella che cerca a tutti i costi il colpo ad effetto o l'incipit affascinante:
“La letteratura di viaggio è diventata miserevole: quegli inizi farseschi, tutti uguali, con la vista dalla fusoliera inclinata dell’aereo, il naso schiacciato contro il finestrino. L’inizio da burla, lo sforzo di fare effetto sono ormai così familiari che è quasi impossibile farne la parodia.”
Parte dunque dal gelido inverno di Boston, prendendo il treno dei pendolari:
“Per gli altri questo era il treno che andava a Sullivan Square, a Milk Street, o tutt’al più a Orient Heights; per me, andava verso la Patagonia.”
Prima tappa: Boston-Chicago, con il Lake Shore Limited, attraverso il nord-est funestato dalla neve e dal gelo.
Dai treni può ammirare distaccato i paesaggi che scivolano via, veloci, e soprattutto incontrare e conoscere gente: la studentessa di filosofie orientali che si dice buddista quando è soltanto intrisa di egocentrismo ("Essere interessanti a vent'anni è difficile per tutti"); la donna di Flagstaff venuta nell’est per il funerale dei genitori ma costretta a tornare indietro perché in quel “rigido inverno del ‘78 (…) il terreno era così duro che non si poteva seppellire la gente".
Da Chicago si comincia la discesa, verso il Texas, con il Lone Star diretto a Fort Worth, città assai poco interessante. Quindi Laredo, sul confine messicano. Dall'altra parte c'è Nueva Laredo, città del vizio e della perdizione. I texani attraversano il confine la sera e i messicani (illegalmente) la mattina per il lavoro (in nero) che gli forniscono i proprietari terrieri, gli stessi che tanto sbraitano contro l'immigrazione clandestina.
Da Chicago si comincia la discesa, verso il Texas, con il Lone Star diretto a Fort Worth, città assai poco interessante. Quindi Laredo, sul confine messicano. Dall'altra parte c'è Nueva Laredo, città del vizio e della perdizione. I texani attraversano il confine la sera e i messicani (illegalmente) la mattina per il lavoro (in nero) che gli forniscono i proprietari terrieri, gli stessi che tanto sbraitano contro l'immigrazione clandestina.
Due comunità formalmente distinte e antitetiche, quelle di Laredo e Nueva Laredo, seppur soggette a continue commistioni. Eppure la diversità, più che altro antropologica e culturale, si vede tutta, una volta superato il confine. Il vecchio con le collane d'aglio avvolte al collo è elemento del paesaggio in Messico, mentre sarebbe arrestato all'istante in Texas. Ma è una differenza anche e più che altro culturale: in Texas sono soliti indicare una città vantandosi del fatto che fino a qualche decennio fa lì c'era il deserto; in Messico gli abitanti di uno slum sono fieri di affermare che qualche decennio prima lì sorgeva una miniera d'argento. Una differenza culturale tra latini e anglo-sassoni, che non può che far venire in mente anche certi atteggiamenti tipici italiani, di ostentazione di un passato glorioso a fronte di un presente di declino e di misere prospettive future.
L'Aztec Eagle conduce a Città del Messico; quindi Veracruz tramite l’El Jarocho:
“Veracruz, quasi a mezzanotte, la banda che suonava ironiche canzoni d’amore, la piazza affollata di prostitute ben disposte, la donna vestita di bianco che descrive la sparizione del marito messicano. Forse questo genere di fantasie cinematografiche, a disposizione del viaggiatore solitario, è uno dei motivi più forti che spingono a viaggiare. (…) agli attori dilettanti, i viaggi offrono grandi occasioni.”
L’arrivo in Messico decreta l’unico cambio di lingua del viaggio: lo spagnolo, parlato ovunque a sud del Texas, fatta eccezione per il Brasile, e correntemente parlato dall’Autore, che non può che registrare alcune curiosità linguistiche:
"I nomi spagnoli sono appropriati solo se intesi in senso ironico, o come semplificazioni; è raro che corrispondano alla realtà. Di solito questo fatto viene preso come prova dell’ottusità, della banalità e della mancanza di immaginazione degli esploratori e cartografi spagnoli. Vedevano un fiume scuro e lo chiamavano sbrigativamente Rio Negro; è un nome comune in tutta l’America Latina, eppure l’acqua non è mai nera. (...) Piedra Negra era una palude, senza pietre nere. A Venado Tuerto non vidi nessun cervo, e a Lagartos nessuna lucertola. Neanche una delle Laguna Verde era veramente di quel colore, La Dorada che mi capitò di vedere era plumbea, la città di Progreso, in Guatemala, era molto arretrata. La Libertad in El Salvador era una roccaforte della repressione...".
"I nomi spagnoli sono appropriati solo se intesi in senso ironico, o come semplificazioni; è raro che corrispondano alla realtà. Di solito questo fatto viene preso come prova dell’ottusità, della banalità e della mancanza di immaginazione degli esploratori e cartografi spagnoli. Vedevano un fiume scuro e lo chiamavano sbrigativamente Rio Negro; è un nome comune in tutta l’America Latina, eppure l’acqua non è mai nera. (...) Piedra Negra era una palude, senza pietre nere. A Venado Tuerto non vidi nessun cervo, e a Lagartos nessuna lucertola. Neanche una delle Laguna Verde era veramente di quel colore, La Dorada che mi capitò di vedere era plumbea, la città di Progreso, in Guatemala, era molto arretrata. La Libertad in El Salvador era una roccaforte della repressione...".
A seguire c’è il Guatemala, poi El Salvador: pericoloso il primo, estremamente povero il secondo. Cominciano ad avvertirsi i primi disagi di un viaggio così complesso. Da quelle parti nessuno prende il treno, se non i più poveri. Tutti viaggiano in corriera. I treni sono sì economici, ma malandati e perennemente in ritardo.
Eppure Theroux sa descrivere così bene anche i ritardi, e il tempo perso per le inefficienze delle ferrovie centroamericane:
“Niente sembra più lungo di un ritardo inaspettato; niente è più difficile da descrivere, o più noioso da leggere. Si scrive <Passò un’ora>, e nella frase non ci sono noia, odori, caldo, rumore, mosche che passano a sciami attraverso la porta sempre aperta della toilette, deformata e senza maniglia. <Passò un’altra ora>; com’è difficile rendere il fracasso delle due radio, il lamento dei maiali, le strilla dei bambini, la sensazione provocata dal sedile bitorzoluto con i ragni che escono dal crine.”
Cominciano ad insinuarsi i primi dubbi, i primi malesseri nell’Autore, pur abituato, dai suoi viaggi precedenti, a disagi e luoghi inospitali e sottosviluppati:
“Ero partito di buon umore, ma non ero un esploratore; il viaggio avrebbe dovuto essere un piacere, non una prova di resistenza e pazienza. Non mi interessava soffrire dei disagi solo per raccontarli a chi m’avesse invitato a cena.”
La scelta del mezzo, il treno, ha i suoi pregi e i suoi difetti: è infatti il mezzo di trasporto più arretrato dell’intero Centro e Sud America, ma forse anche per questo motivo è quello che consente meglio di penetrare lo spirito di quei posti:
“Viaggiare in treno è utile, se si desidera comprendere un paese. Lì comprendere significa inevitabilmente deprimersi, ma era comunque un avvicinarsi al vero.”
Tra il Guatemala ed El Salvador, nonostante le diversità del paesaggio naturale, la sensazione è quella di un costante senso di deja-vu:
“Il paesaggio cambiava, i villaggi rimanevano uguali. A un certo punto ti viene da pensare: Qui ci sono già stato. Il villaggio è piccolo e porta il nome di un santo. La stazione è un capannone aperto su tre lati, e vicino ci sono mucchi di bucce d’arancia, gusci spaccati e stopposi di noci di cocco, bottiglie e cartacce. Quel rivolo grigio di acqua di scarico che si raccoglie in una pozza gialloverde; quella donna con un cesto sulla testa, e le banane nel cesto, e le mosche sulle banane; quella catasta di traversine nere e il cumulo di barili oleosi; il cartello della Coca-Cola, sbiadito fino a diventare rosa, i dieci bambini sudici e la bambina con il neonato nudo sulla schiena, il ragazzo con una radio stridula grande come una scatola da scarpe, i banani, le quattro capanne, il cane zoppicante, il maiale che si lamenta, l’uomo che sonnecchia con la testa appoggiata alla spalla sinistra e la tesa del cappello calata sul volto. Sei già stato qui, hai già visto il sentiero scalpicciato, il fumo, il sole proprio in quell’angolo bruciante sopra gli alberi, la carcassa di automobile appoggiata sui cerchioni, i polli che becchettano ciottoli tirandoli fuori dall’ombra, il viso dietro lo straccio di tenda alla finestra della capanna, il capostazione in maniche di camicia e pantaloni neri, sull’attenti nel sole con il suo diario di bordo, le foglie degli alberi coperte da una polvere così spessa che paiono morte. Sembra tutto così familiare che cominci a pensare di aver viaggiato in cerchio…”.
La prosa di Theroux è affascinante, suadente. Anche quando si limita ad elencare ciò che vede, lo fa con una cadenza musicale ed armonica prossima a quella della poesia.
La gente del Centro-America è generalmente poco loquace, per non parlare degli indios delle zone più povere. Eppure hanno delle abitudini estremamente curiose:
“Eravamo entrati in una galleria. I passeggeri cominciarono a gridare. I centroamericani gridano sempre nelle gallerie, ma non capivo se urlavano dall’entusiasmo o dal terrore. In quel vagone non c’erano luci, e con il buio arrivò una raffica di polvere che si fece più spessa quando il treno sussultò. Sentivo la polvere che mi volava in faccia, la sentivo fra i capelli, come se fossi dentro un buco e mi venisse rovesciata addosso a palate. Mi venne in mente cosa facevano gli altri passeggeri in questi casi, e affondai la faccia nella camicia respirando attraverso la stoffa. Passammo nella galleria cinque minuti, che è un tempo molto lungo se si considera che si rischia di soffocare, non si vede niente e si sente gente che urla.”
Il viaggio in treno, che nelle intenzioni di Theroux avrebbe dovuto essere continuativo (o quasi) da Boston alla Patagonia, subisce una prima interruzione a El Salvador, a causa dell’instabilità politica del confinante Nicaragua, Paese violento e che vive in una sorta di perenne guerra civile:
“Cominciai a preoccuparmi; decisi di arrivare fino alla frontiera con il Nicaragua e di parlare con la gente. Se la situazione fosse stata ancora minacciosa avrei compiuto una deviazione, evitando di entrare nel paese. Andai in treno a Cutuco per esaminare da vicino il Nicaragua; era come andare dal dentista sperando che non ci fosse…”
Costretto a saltare il Nicaragua a causa dei disordini, Theroux giunge in Costa Rica, un Paese completamente diverso dai suoi vicini centramericani: è prospero (l’unico da quelle parti), la popolazione vive bene, c’è poca povertà. Un Paese che funziona, insomma. Vi sono un sacco di turisti, americani e non, molti dei quali decidono di stabilirvisi definitivamente. Una differenza culturale e non solo, che si nota anzitutto proprio dalle ferrovie:
“Fuori dalla stazione c’è una locomotiva a vapore montata su blocchi di cemento, perché i viaggiatori possano ammirarla. In El Salvador una macchina simile andrebbe sbuffando e soffiando verso Santa Ana; in Guatemala l’avrebbero fusa e ne avrebbero fatto bombe antiuomo per la Mano Blanca.”
In Costa Rica non ci sono treni che viaggiano verso i Paesi confinanti: è anche un modo per salvaguardare la propria specialità. Vi sono due linee ferroviarie che partono dalla capitale San Josè: una che va verso l’Atlantico e la città di Limón, l’altra verso il Pacifico e la città di Puntarenas.
In Costa Rica Theroux incontra il maggior numero di americani da quando ha lasciato gli Stati Uniti: un pilota d'aereo, un texano da un quintale e mezzo che per mestiere esporta valigette piene di denaro, un prolisso pittore del New Hampshire in vacanza di piacere e che ha perso il suo gruppo. Sarà proprio quest’ultimo a fargli capire quanto sia importante essere soli per gustarsi veramente un viaggio:
“Viaggiare è un’impresa che riesce al meglio se si è soli; per poter vedere, esaminare e valutare bisogna essere liberi da vincoli di qualsiasi genere. I compagni di viaggio ti sviano l’attenzione, schiacciano le tue impressioni vaganti sotto le proprie. Se sono socievoli si frappongono tra te e la vista, se sono seccatori guastano il silenzio con frasi incoerenti, mandano in frantumi la concentrazione con Oh guarda, sta piovendo e Ci sono parecchi alberi qui. Viaggiando per fatti propri ci si può sentire terribilmente soli (…). Ci sono le serate in una stanza d’albergo, in una città sconosciuta; il diario è aggiornato, sento una voglia pazza di compagnia, che fare? Non conosco nessuno quindi vado in giro, perlustro le tre strade della città e provo invidia per le coppie a spasso e per la gente con bambini. (…) Ci sono i Ruggles e i Dibbs che mi libereranno dalla maledizione della noia, ma ho il molesto sospetto che se fossi rimasto a casa e avessi bighellonato nel centro di Boston fino a mezzanotte, li avrei incontrati nella Two O’Clock Lounge (…). Per incontri del genere non c’era bisogno di venire fino in Costa Rica.
In compagnia di altre persone è difficile vedere con chiarezza, portare a termine i pensieri. Non c’è solo l’impaccio, e la difficoltà di cogliere le percezioni necessarie alla scrittura se c’è qualcuno accanto che pensa ad alta voce. In compagnia mi svago, ma quel che cerco è la scoperta, non l’intrattenimento. Ci vuole la lucidità della solitudine per catturare le visioni che forse sono banali, ma in uno stato d’animo particolare paiono speciali e degne d’interesse. Se sono abbandonato a me stesso, qualcosa mi stimola la mente e la rende intensamente recettiva per le impressioni fuggevoli. Più tardi quelle impressioni possono venir confutate e scartate, ma è anche possibile che vengano verificate e affinate, e in ogni caso ho la soddisfazione di portare a termine la questione da solo. Viaggiare non è una vacanza, anzi spesso è tutt’altro che riposante. Divertiti, mi avevano detto al momento del commiato alla South Station, ma io non cercavo piacevolezze. Desideravo ardentemente incorrere in qualche piccolo rischio, in un po’ di pericolo, in un evento deplorevole, in un disagio intenso. Volevo fare esperienza della mia propria compagnia e provare, se pure in una forma modesta, il fascino della solitudine. Era questo che cercavo, nel treno per Limón."
Dopo il Costa Rica, l’istmo di terra del Centro-America si restringe nello Stato del Panama, ove tutto ruota attorno al canale (“Non si può non restare colpiti dal meccanismo del canale; poche opere umane al mondo possono reggerne il confronto.”). Anche qui molti americani, ma più per ragioni commerciali e tecniche legate al canale, che per la qualità della vita. A ennesima conferma che il Costa Rica è davvero un’isola felice in mezzo a povertà e regimi dittatoriali (un’isola felice in senso metaforico, ovviamente; si potrebbe coniare la locuzione “istmo felice”).
Lasciato Panama si entra in Sud America, cominciando dalla pericolosa Colombia. Segue l’Ecuador, altrettanto preoccupante (quanto meno per città come Guayaquil, dove Theroux si reca per incontrare dei lontani parenti di origine italiana, divenuti ricchi industriali nel Paese). Cambiano i paesaggi: dai vulcani del Centro America alla Cordigliera delle Ande, che inizia a tracciare il percorso nord-sud che l’Autore dovrà percorrere per giungere in Patagonia. Le città sono spesso situate ad altitudini molto elevate, incluse le capitali (Bogotà è a quasi 2.700, Quito quasi 2.800). I binari si spingono fino a quota 4.000, spesso superandola, con i disagi e i malesseri fisici che la cosa comporta. L’unica vera costante è la considerazione che i locali hanno per il mezzo ferroviario:
“Ero stato in America Latina a sufficienza per sapere che i treni portavano un marchio di classe. Solo le persone quasi indigenti, gli zoppi, quelli senza scarpe, gli indios e i bifolchi mezzi matti prendevano i treni, o sapevano qualcosa a proposito. Per questo erano una buona introduzione alle miserie sociali e agli splendori naturali del continente.”
Nel Sud America il viaggio comincia a farsi molto più spezzettato: non vi è più quella linea ferroviaria continua che Theroux immaginava di percorrere. Pochissimi treni si spingono oltre i confini nazionali e l’Autore è costretto ad utilizzare altri mezzi di trasporto per spostarsi da una Nazione all’altra. Dopo la Colombia giunge in Perù: probabilmente il Paese più povero del Sud America ma anche il più visitato dai turisti per via delle rovine Inca di Cuzco e Machu Picchu:
“Il turismo, praticato con grande energia soprattutto nelle società più statiche, significa di solito questo: i ricchi, che si possono muovere, fanno visite a casaccio ai poveri, che sono bloccati.”
È la volta della Bolivia (ancora una volta sulle Ande, ad altitudini elevate – La Paz è a quasi 3.700 s.l.m. – con i conseguenti malesseri).
In Bolivia Theroux si trattiene assai poco. Prende subito il Panamericano, uno dei pochi treni del Sud America che attraversa un confine:
“Un confine è quasi sempre una terra di nessuno in cui si recitano commedie fraudolente e affascinanti: la cerimonia del timbro del passaporto, gli sguardi sospettosi, le angherie alla dogana, gli stupidi risentimenti patriottici, le lentezze immotivate.”
Con l’ingresso in Argentina, a La Quiaca, la città più a nord del Paese, si avvicina inesorabilmente la meta finale.
Impossibile non notare l’estrema diversità tra l’Argentina e gli altri Paesi attraversati. Lo Stato che ospita buona parte della Patagonia è più europeo, più sviluppato (anche se pure qui c’è una dittatura militare come in buona parte degli altri Paesi). Vi sono pochi indios e quasi nessun uomo di colore, mentre pullulano le persone di origine europea (italiani, tedeschi, gallesi), con il loro carico di nostalgia:
“la tristezza faceva parte del temperamento argentino; non si trattava di un’oscurità drammatica, ma piuttosto di un’umidità dell’anima, la malinconia che gli immigranti provano nei pomeriggi piovosi, lontani da casa.”
Il Panamericano fa capolinea a Tucuman, da dove parte l’Estrella del Norte per Buenos Aires. A metà percorso c’è Rosario, città natale del Che: “Non c’è modo più veloce di distruggere un uomo, o di prendersi gioco delle sue idee, che farlo diventare di moda.”
Ed ecco la splendida Buenos Aires, metropoli calda e ospitale, che assomiglia a Parigi ma soltanto per l’architettura, dato che non rinuncia alla sua latinità.
Una capitale viva e culturalmente in fermento, nonostante la dittatura e i suoi orrori (a quel tempo ancora in parte oscurati, vista anche l’imminenza dei mondiali di calcio da giocarsi tra le mura domestiche).
Theroux riesce a trovare in una libreria le copie tradotte in spagnolo dei suoi libri e grazie al suo editore argentino riesce a incontrare Borges, il quale è incuriosito da alcuni suoi scritti.
Jorge Luis Borges: il più grande scrittore argentino di sempre e uno dei più grandi letterati del Novecento, a quel tempo già divenuto ceco.
Una piccola macchia soltanto sulla sua strepitosa carriera: una certa acquiescenza per la dittatura di Videla, dettata in parte dalle sue simpatie conservatrici e in parte dall’antipatia per Peron (che gli aveva fatto imprigionare alcuni parenti stretti) e il peronismo in generale (per Borges, Evita non era nulla di più che una prostituta e Videla tutto sommato un brav’uomo). Opinioni che muterà dopo che gli orrori della dittatura verranno allo scoperto e dopo il pasticcio delle Falkland.
Tra Borges e Theroux scoppia subito un grande feeling, visto il comune amore per la letteratura (Borges si è sempre vantato, immodestamente, di amare di più i libri degli altri che i suoi, il leggere più che lo scrivere).
Pagine bellissime quelle in cui Theroux visita, pressoché quotidianamente, la casa dell’argentino, ritardando il suo viaggio in Patagonia (ma del resto come si può dire di no al grande Borges?).
I due parlano di libri e di cultura, di politica e della destinazione finale dell’americano:
“Borges riflettè un momento, poi disse: <Non c’è niente in Patagonia. Non è il Sahara, ma è la cosa che gli assomiglia di più in Argentina. No, in Patagonia non c’è nulla>.
Se è davvero così, pensai, allora è il luogo perfetto per finire questo libro."
La partenza non può essere ulteriormente procrastinata e Theroux prende l’espresso Lagos del Sur, giungendo così finalmente in Patagonia. Non vi è un confine unanimemente stabilito (alcuni indicano il Rio Colorado, altri il Rio Negro). Sta di fatto che, per chi vi arriva, la sensazione di diversità del paesaggio si fa subito avvertire rispetto alle sterminate pampas dell’Argentina centrale:
“Attraversammo il fiume; era largo solo poche centinaia di metri, ma l’esperienza mi parve sorprendente, anche dopo così tante altre simili nel Sud America: sull’altra riva entrammo in una terra diversa. Il suolo era di sabbia e ghiaia, non c’era ombra, la terra era marrone. A Carmen de Patagones avevamo incontrato mandrie al pascolo e pioppi, e l’erba era verde. Ma non dopo Viedma, non c’era più erba. C’erano boscaglia e polvere…”
Le descrizioni paesaggistiche di Theroux sono sempre suggestive:
“All’inizio la si può scambiare per una zona fertile. All’orizzonte c’è una striscia di verde pieno, senza interruzioni, con protuberanze di cespugli. Alla media distanza è di un giallo verdeggiante, poi impallidisce in una zona con più protuberanze e chiazze di marrone. Da vicino, in primo piano, si scopre l’illusione: sono cespugli sparsi, piccoli e spinosi che creano l’illusione del verde; sono queste cose piccole, fragili e aride che coprono tutta la pianura.”
L’Autore conia il concetto di “paradosso della Patagonia” per esprimere l’estrema difficoltà nel descrivere quei paesaggi così particolari:
“Era questo il paradosso della Patagonia; star qui spingeva a diventare un miniaturista, oppure a interessarsi a enormi spazi vuoti. Non c’era un campo di studio intermedio; o l’enormità dello spazio deserto o la vista di un fiore piccolissimo. Si doveva scegliere fra il minuscolo e l’immenso.”
Un paesaggio solitario e desolante ma che comunica grandi emozioni, nel bene e nel male:
“Era straordinario quanto fosse vuoto questo posto. Borges lo aveva chiamato tetro, ma non lo era. Era a malapena qualcosa. Non c’era abbastanza sostanza in esso perché comunicasse una sensazione. Un deserto è una tela vuota; sei tu a dargli caratteristiche e sensazioni, sei tu a lavorare per creare il miraggio e farlo vivere. Ma io ero indifferente; il deserto era deserto, vuoto quanto me in quel momento.”
L’autore, man mano che si avvicina all’isolata cittadina di Esquel, suo capolinea, inizia a tirare le fila di tutto quel tempo trascorso e delle sue teorie sul viaggio:
“Se un aspetto del viaggio era l’abbandonarsi al brivido, proprio dell’esploratore, di trovarsi da solo, di avere lasciato indietro tutti gli altri, dopo quindicimila o ventimila miglia, e di essersi imbarcato in una missione solitaria alla scoperta di un luogo remoto, allora avevo realizzato il sogno del viaggiatore. Il treno va mille miglia oltre Buenos Aires, si ferma in mezzo al deserto e tu scendi. Ti guardi intorno, sei solo. (…) Nei migliori libri di viaggi, la parola solo è implicita in ogni pagina emozionante, è fine e ineliminabile come una filigrana. Questa concezione, l’idea di poter farne il resoconto (…) compensava i disagi. Solo, solo; era come la prova del mio successo. Avevo dovuto viaggiare molto lontano per arrivare a questa condizione solitaria.”
Theroux arriva alla città di Ingeniero Jacobacci, dove lascia l’espresso Lagos del Sur, per salire, dopo una estraniante attesa notturna, sull’ultimo treno della Patagonia, il Viejo Expreso Patagonico diretto ad Esquel. Quello che per molti rappresenterebbe un inizio, per lui è la fine del viaggio:
“Sebbene più avanti ci fossero montagne, ghiacciai, albatri e indios, qui non c’era niente di cui parlare, nulla che mi trattenesse ancora. Solo il paradosso della Patagonia: lo spazio immenso e i fiori minuscoli del cespuglio simile all’artemisia. Il nulla in sé, che per qualche intrepido viaggiatore segna l’inizio, per me era una conclusione. Ero arrivato in Patagonia, e mi venne da ridere ricordando che ero partito da Boston, con il treno sotterraneo che la gente prendeva per andare a lavorare."
Un libro davvero fantastico. A mio avviso decisamente superiore al pur profondo “In Patagonia”. Se Chatwin descrive, in modo invero più complesso, il viaggio come esperienza dettata da un’occasione o da un pretesto e avente un fine, per quanto semplice, Theroux ha un’idea più tradizionale di viaggio (pur biasimando la letteratura di viaggio vecchio stile). È un accumulatore di esperienze, mentre Chatwin ha quasi l’atteggiamento dell’enciclopedista. L’effetto che riesce a regalare Theroux è però indubbiamente più profondo, più emotivamente coinvolgente.
Un grande libro di viaggio, senza dubbio il migliore che io abbia finora letto nella narrativa di genere.
Un grande libro di viaggio, senza dubbio il migliore che io abbia finora letto nella narrativa di genere.
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