24 febbraio 2015

Una stagione in inferno, di Arthur Rimbaud

Una stagione in inferno (Une saison en enfer), di Arthur Rimbaud

Anno di prima pubblicazione: 1873

Edito da: Mondadori, Rizzoli, SE, Feltrinelli, Einaudi

Voto: 9/10

Pagg.: 74 (nell'edizione Mondadori - I Meridiani)

Traduttore: Diana Grange Fiori

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Una stagione all’inferno, il capolavoro in prosa di Rimbaud - in cui in realtà è difficile vedere un allontanamento dalla poesia (forse soltanto dalla rima e dalla metrica) - fu scritto, stando alla data riportata nell’opera stessa, tra l’aprile e l’agosto del 1873.

Un periodo tra i più funesti nella vita del poeta di Charleville: la travagliata convivenza con Verlaine, tra Londra e Bruxelles, il suo ferimento da parte di quest’ultimo, che gli sparò dopo che Rimbaud gli aveva annunciato la decisione di tornare a Parigi.
Rimbaud abbandona la forma in versi per dedicarsi a quella che Verlaine definì una “prosa di diamante”, componendo un’opera che, sempre secondo il suo amico e compagno poeta, rappresenta la sua “prodigiosa autobiografia psicologica”.
Ma non solo. Perché Una stagione all’inferno è anche l’esternazione dei travagli interiori di Rimbaud, la lucida analisi della sua esperienza poetica, del suo stile e il probabile tentativo di emanciparsene, e in generale di emanciparsi dall’arte.

Gli stralci autobiografici iniziano fin da Cattivo sangue:
Dei miei antenati, i Galli, ho l’occhio biancazzurro, il cervello stretto, e l’inefficienza nella lotta. (…)
Di loro, ho: l’idolatria e l’amore per il sacrilegio; - ah! tutti i vizi, ira, lussuria, - magnifica, la lussuria; - soprattutto menzogna e accidia.
I mestieri, li odio tutti. Padroni e operai, tutti bifolchi, ignobili. La mano da penna vale la mano da aratro.

In Notte dell'inferno, assistiamo al resoconto di alcune delle esperienze londinesi di Rimbaud e Verlaine, aiutati non si sa bene da quali sostanze (siccome l'assenzio a Londra era all’epoca introvabile):
Ho bevuto una fenomenale sorsata di veleno. – Tre volte benedetto il consiglio che mi è giunto! – Le viscere scottano. La violenza del veleno mi torce le membra, mi rende deforme, mi annienta. Muoio di sete, soffoco, non posso gridare. È l’inferno, la pena eterna! Guardate come il fuoco si ravviva! Brucio come si deve. Va’, demonio!

Nella prima parte dei Deliri, Vergine folle, la narrazione di Rimbaud instilla i dettagli della sua vita e dei suoi rapporti con Verlaine in un contorno fortemente simbolico:
Che vita! La vita vera è assente. Noi non siamo al mondo. Dove va lui, vado io, è indispensabile. E spesso va in collera contro di me, contro di me, pover’anima. Demonio! – è un demonio, sapete, non è mica un uomo.
Nelle bettole in cui ci ubriacavamo, piangeva considerando quelli che ci stavano intorno, bestiame della miseria.

…avevo fame della sua bontà, sempre di più. Con i suoi baci e i suoi amplessi amici, era un cielo, veramente, un cielo fosco quello in cui entravo, e dove avrei voluto che mi lasciassero, povera, sorda, muta, cieca. Ormai mi stavo abituando. Vedevo noi due come bravi ragazzi, liberi di vagabondare nel Paradiso di tristezza.

Nella seconda parte dei Deliri, Alchimia del verbo, Rimbaud parla invece della sua poetica in un velocissimo excursus della sua breve carriera di poeta:
Sognavo crociate, viaggi di scoperte di cui non esistono relazioni, repubbliche senza storia, guerre di religione represse, rivoluzioni del costume, migrazioni di razze e continenti: credevo a tutti gli incantamenti.
Inventai il colore delle vocali! – A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu, - Disciplinai la forma e il movimento di ogni consonante, e, con ritmi istintivi, mi lusingai d’inventare un verbo poetico accessibile, un giorno o l’altro, a tutti i sensi. Riservavo la traduzione.
Fu all’inizio uno studio. Scrivevo silenzi, notti, segnavo l’inesprimibile. Fissavo vertigini.

Il vecchiume poetico era per buona parte nella mia alchimia del verbo.
Mi abituai all’allucinazione semplice: vedevo indiscutibilmente una moschea al posto di un’officina, una scuola di tamburini addestrata da angeli, calessi per le vie del cielo, in fondo a un lago un salotto; mostri, misteri; un titolo di vaudeville drizzava terrori davanti a me.
Più tardi spiegai i miei sofismi magici con l’allucinazione delle parole!
Finii col trovare sacro il disordine del mio spirito. Stavo in ozio, preda d’una febbre pesante: invidiavo la felicità delle bestie, - i bruchi, che rappresentano l’innocenza del limbo, le talpe, il sonno della verginità!
Il mio carattere s’inaspriva. Dicevo addio al mondo in una sorta di romanze…
È nei Deliri che Rimbaud interrompe a tratti la scrittura in prosa innestandovi versi, alcuni dei quali pare siano stati riportati mnemonicamente dalle sue Poésies (e che infatti sono in parte modificati, come L'eternità e Canzone della torre più alta).

Rimbaud ripercorre in poche parole la propria infanzia in L'impossibile:
Ah! quella vita della mia infanzia, la strada maestra con ogni tempo, sobrio sovranamente, più disinteressato del migliore fra gli accattoni, fiero di non avere né paese, né amici, che scempiaggine era.
e la propria gagliarda giovinezza in Mattino:
Una volta non ebbi forse una giovinezza amabile, eroica, favolosa, da iscrivere su fogli d’oro, - troppa fortuna! Per quale delitto, per quale errore, ho meritato la mia debolezza d’oggi?

Una stagione in inferno termina con un breve Addio, da alcuni considerato il suo commiato alla poesia.

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