3 ottobre 2015

Delitto e castigo, di Fedor Dostoevskij

Delitto e castigo (Prestuplénie i nakazànie), di Fedor Dostoevskij

Anno di prima pubblicazione: 1866

Edito da: Garzanti, Feltrinelli, Einaudi, Mondadori

Voto: 9/10

Pagg.: 620 (nell'edizione Garzanti)

Traduttore: Giorgio Kraiski

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Delitto e castigo, uno dei capolavori della letteratura russa dell’Ottocento, è innanzitutto un romanzo la cui (errata) traduzione del titolo in italiano può risultare fuorviante.
Prestuplénie i nakazànie è infatti traducibile come Il delitto e la pena, con espresso richiamo al saggio illuminista di Beccaria, che ispirò l’intera Europa in quel Secolo e che era ovviamente conosciuto da Dostoevskij.

Con questa sua opera, l’Autore russo si proponeva, infatti, tra le altre cose, di lanciare un monito ai legislatori dell’epoca, per mezzo di un’analisi psicologica dell’animo di colui che delinque: la pena funziona da deterrente fino ad un certo punto, perché spesso è il criminale stesso che vuole, più o meno inconsciamente, essere punito.
Delitto e castigo, per quanto sia un titolo più musicale e suggestivo (che è probabilmente la ragione per cui non è stato poi corretto), deriva da una traduzione dal francese.
Il termine castigo, usato al posto di pena, ha connotati moralistici che non sono estranei all’opera di Dostoevskij, ma che in parte sicuramente snaturano quello che è il senso principale che lo scrittore voleva dare alla sua opera.

Protagonista del romanzo è Rodion Romanovič Raskol’nikov, un giovane ex-studente di legge, di animo irrequieto e con tendenze misantropiche:
Nonostante il suo recente, fugace desiderio di avere in ogni modo contatti con la gente, alla prima parola effettivamente rivoltagli aveva riprovato di colpo il suo consueto, sgradevole sentimento di irritazione e repulsione verso qualsiasi estraneo che sfiorasse o tentasse di sfiorare la sua intimità”.
Raskol’nikov vive in condizioni di estrema povertà. Ha dovuto abbandonare gli studi proprio per tale motivo e vive grazie ai soldi che gli vengono inviati dalla madre e dalla sorella. Anch’esse non se la passano per nulla bene e sono costrette, rispettivamente, ad indebitarsi e a lavorare anche e soprattutto per mantenere lui. Raskol’nikov sembra non avere alcun riguardo per la cosa, e si ostina a scialacquare quei soldi che gli vengono inviati, in parte a causa di un’innata generosità verso il prossimo.
Nel romanzo, il tema della povertà e della miseria è fondamentale (seppur non principale). Molti dei personaggi sono infatti di infima condizione, sebbene ciascuno di essi viva la povertà a modo suo.
Il tema della miseria è anche oggetto di uno dei più interessanti dialoghi presenti in apertura, quello tra Raskol’nikov e Marmeladov, un ubriacone che giustifica in tal modo il suo vizio:
la povertà non è vizio, ed è vero. So che anche l’ubriachezza non è una virtù, ed è ancor più vero. Ma la miseria nera, egregio signore, la miseria nera è un vizio. Nella povertà voi conservate intatta la nobiltà dei vostri sentimenti innati, ma nella miseria nera no, nessuno mai ci riesce. Quando si è in miseria nera, non ti si butta nemmeno fuori a bastonate, ma ti si spazza via da ogni consorzio umano con la scopa, per aggravare l’offesa; ed è giusto, poiché nella miseria nera io per primo sono pronto a offendere me stesso”.
Raskol’nikov è un esempio che risulta ancora piuttosto moderno di giovane inetto, svogliato:
«tu, che sei un intelligentone, perché te ne stai lì coricato come un sacco e non ti dai da fare? (…)
«Sì che faccio...» (…)
«Fai cosa?»
«Un lavoro...»
«Che lavoro?»
«Penso»
Le sue pulsioni, le sue passioni, lo portano ad essere intrinsecamente estremista, anche nell’affrontare la sua stessa condizione:
Occorreva a ogni costo decidersi a far qualcosa, oppure... Oppure, rinunciare addirittura alla vita!”.

Il proposito del delitto che dà nome al romanzo sorge in Raskol’nikov dopo aver assistito ad una discussione tra un funzionario ed un infervorato studente, il quale ipotizza l’omicidio di un’anziana usuraia (che annovera tra i suoi clienti lo stesso Raskol’nikov), giustificandolo, in linea teorica, da un punto di vista di utilità sociale:
abbiamo energie giovani, fresche, che vanno in malora, così senza nessun appoggio, a migliaia; e questo succede dappertutto! Cento, mille opere e iniziative buone si potrebbero avviare e realizzare con i soldi della vecchia, che invece li ha destinati a un monastero! Centinaia, forse migliaia di esistenze indirizzate sul giusto cammino; decine di famiglie salvate dalla miseria, dalla disgregazione, dalla rovina, dalla corruzione, dalle malattie veneree, e tutto col suo denaro. Ammazzala, prendi i suoi soldi e poi, con essi, mettiti al servizio dell’umanità e della causa comune: non credi che un piccolo delitto sarebbe compensato, in questo modo, da migliaia di buone azioni? Per una sola vita, migliaia di vite salvate dal marciume e dalla rovina. Una sola morte, e cento vite in cambio: ma questa è matematica! Che cosa conta, sulla bilancia collettiva, la vita di quella vecchietta tisica, stupida e malvagia ? Non più della vita di un pidocchio, di uno scarafaggio, anzi meno, perché la vecchia è dannosa. Rovina la vita agli altri…”.
Per come viene presentato, viene quasi il dubbio sul fatto che tale dialogo sia realmente avvenuto, piuttosto che si tratti soltanto di un parto della mente del protagonista.
In ogni caso, Raskol’nikov si ritrova in questo proposito e vede nell’omicidio della vecchia anche la possibilità di impossessarsi di parte dei suoi averi per rendere più sereno il proprio futuro.
Il delitto viene portato a compimento, con un misto di ansia e lucidità, ma c’è un imprevisto: Raskol’nikov si vede costretto ad uccidere anche la sorella dell’usuraia (una persona buona e quieta), sopraggiunta poco dopo l’omicidio.
Le pagine in cui viene descritto il duplice assassinio sono assolutamente intense e fanno riflettere sul ruolo della coincidenza, del caso, nella genesi di un delitto.
Coincidenze che, nel caso di Raskol’nikov, sono tutte positive, come se vi fosse una forza superiore che lo spinge e lo aiuta a delinquere:
Se non t’aiuta il cervello, t’aiuta il diavolo”.
La titubanza verso il delitto è superata anche grazie alle condizioni positive che Raskol’nikov incontra, dal fatto di non trovare alcun ostacolo.
Lo scontro, in atto nella sua testa, tra resistenza e perseveranza nel proposito delittuoso, viene così definitivamente risolto in favore di quest’ultima.

Dopo il duplice omicidio, nel protagonista si fa strada un profondo tormento, un’inquietudine che lo attanaglia fino ad indisporlo fisicamente (come se la malattia potesse contribuire all’espiazione delle sue colpe). Dostoevskij chiama questo sentimento, con suggestiva definizione, il “cinismo della rovina”.
Una sorta di fatalismo si fa strada in lui, inducendolo ad attendere rassegnatamente le conseguenze derivanti dalla sua azione:
Purché finisca presto!”.
Il protagonista vive un vero e proprio calvario, che Dostoevskij sa trasmettere con maestria.
Raskol’nikov attende e contempla la pena come parte del suo percorso e del suo destino. Sembra che la desideri per poter finalmente espiare le sue colpe (ed ecco ricongiungerci al tema del titolo del romanzo). In tal senso sente un intimo bisogno di confessare.

In varie parti del libro si affrontano discorsi su temi di politica criminale e di natura del delitto. Come in questo dialogo tra il giudice istruttore (figura chiave del romanzo, con la sua abilità di indagine e oratoria) e Razumìchin, uno dei pochi amici di Raskol’nikov:
«... Eravamo partiti dalla concezione dei socialisti. È nota: il delitto è una protesta contro l’ingiustizia dell’ordinamento sociale, niente di più; non ci sono altre cause, e basta!...»
«Ed ecco che tu sei già fuori strada!» gridò Porfìrij Petròvič. Egli si andava visibilmente animando e non faceva che ridere, guardando Razumìchin, stuzzicandolo così ancora di più.
«N-non ci sono altre cause», lo interruppe con foga Razumìchin, «e io non sono fuori strada!... Posso mostrarti i loro libri: per loro, tutto dipende dall’“ambiente che corrompe”, e basta! È la loro frase preferita! Ne consegue direttamente che se si riorganizza la società, subito tutti i delitti scompariranno, perché non ci sarà più nulla contro cui protestare, e in un batter d’occhi tutti diventeranno probi. La natura non la prendono in considerazione, la natura viene cancellata, la natura non c’entra! Per loro non è l’umanità che, attraverso lo sviluppo storico, attraverso il cammino della vita, percorso sino in fondo, si trasformerà finalmente, da sola, in una società giusta; ma è il sistema sociale che, balzando fuori da chissà quale mente matematica, metterà subito ordine in tutta l’umanità, rendendola in quattro e quattr’otto proba e senza peccato, al di fuori di qualsiasi vitale processo storico! (…)»”.
Il giudice istruttore, che nutre forti sospetti su Raskol’nikov, pur non supportati da alcun indizio, gli rinfaccia una sua teoria giovanile, scovata in un articolo scritto ai tempi dell’università. Una teoria che Raskol’nikov non rinnega:
Io ho semplicemente formulato l’ipotesi che un uomo “straordinario” abbia il diritto... non un diritto ufficiale, beninteso... di permettere alla propria coscienza di scavalcare certi... certi ostacoli, e ciò esclusivamente nel caso in cui l’esecuzione di un suo progetto (talvolta, magari, salutare per l’intera umanità) lo richieda”.
Il giovane Raskol’nikov giustificava il delitto facendo ricorso ad un concetto comparativo, ad una valutazione di merito totalmente arbitraria, ma che introduce, embrionalmente e pur con delle differenze sostanziali, il concetto di super-uomo nietzschiano.
Solo che per Raskol’nikov, questo super-uomo è identificato nel grande uomo del passato (porta l’esempio di Napoleone, ma anche di Newton), più che nell’uomo del futuro che deve elevare la propria condizione.
Quanto poi alla mia divisione degli uomini in ordinari e straordinari, devo ammettere che è un po’ arbitraria: ma non è che io insista su una delimitazione precisa. Mi limito a credere nella mia idea fondamentale; cioè appunto che gli uomini, per legge di natura, generalmente si dividono in due categorie: una inferiore che è quella degli uomini ordinari, cioè, per così dire, materiale che serve unicamente a procreare altri individui simili, e un’altra che è quella degli uomini veri e propri, i quali, cioè, hanno il dono o il talento di dire, in seno al loro ambiente, una parola nuova. Esistono, si capisce, infinite sfumature, ma i tratti caratteristici delle due categorie sono abbastanza netti: la prima categoria, vale a dire il “materiale”, è composta in linea di massima da persone per loro natura conservatrici e per bene, che vivono nell’obbedienza e amano obbedire. Secondo me, costoro hanno anche il dovere di essere obbedienti, perché questo è il loro compito e non v’è in esso assolutamente nulla di umiliante per loro. Quelli della seconda categoria, invece, violano tutti la legge, sono dei distruttori, o per lo meno sono portati a esserlo, a seconda delle loro attitudini. I delitti di questi uomini, naturalmente, sono relativi e assai disparati; per lo più essi chiedono, con le formule più svariate, la distruzione del presente in nome di qualcosa di meglio. Ma se a uno di loro occorre, per realizzare la sua idea, passare anche sopra un cadavere, sopra il sangue, secondo me egli, nel suo intimo, in coscienza, può permettersi di farlo…”.
Questa sua convinzione di essere un “super-uomo” (nel senso dostoevskijano del termine) lo porta, in un emblematico dialogo con un impiegato del commissariato di polizia, ad un inquietante gioco psicologico in cui egli, con allusioni subdole sul delitto, se ne addossa (in modo apparentemente scherzoso) le responsabilità. Un atteggiamento che ritorna quando, in preda ad un apparente delirio, Raskol’nikov torna sul luogo del delitto ed ha la sfrontatezza di chiedere in affitto la casa in cui è stato commesso il duplice assassinio.

L’inizio del percorso redentivo di Raskol’nikov coincide anche con la conoscenza della giovane Sonja, figlia di Marmeladov. I due si ameranno inizialmente, in modo molto tormentato, di un amore platonico. Soltanto nel finale, quando ella lo seguirà e lo assisterà in Siberia, durante la sua detenzione, Raskol’nikov acquisterà la piena consapevolezza del proprio sentimento.
I dialoghi tra il protagonista e Sonja (la prima che riceverà la confessione del delitto), fanno trasparire la profonda diversità d’animo e d’idee tra i due giovani. Religiosa lei, ateo e nichilista lui:
«Dio, Dio non permetterà un orrore simile!...»
«Ne permette tanti altri.»
«No, no! Dio la proteggerà, Dio!...» ripeteva lei, fuori di se.
«Ma forse Dio non esiste affatto», ribatté Raskòlnikov con una specie di gioia maligna (…)”.
Il peso che opprime l’animo di Raskol’nikov, la sua angoscia, la sua disperazione, sembrano crescere con il passare del tempo e soltanto in Sonja il giovane vede un barlume di salvezza:
Non è davanti a te che mi sono inginocchiato, ma a tutta la sofferenza umana”.
È in occasione della confessione a Sonja che ritorna quella teoria con cui Raskol’nikov cercava di giustificare il proprio delitto:
Ecco come stanno le cose. Un giorno mi domandai: se al mio posto, per esempio, si fosse trovato Napoleone, e per cominciare la sua carriera non avesse avuto né Tolone, né l’Egitto, né il passaggio del Monte Bianco, ma invece di tutte queste cose belle e monumentali gli fosse capitata semplicemente una ridicola vecchietta, vedova di un impiegato del registro, da uccidere per poterle rubare i soldi dal forziere (per la carriera, capisci?) – ebbene, si sarebbe deciso a farlo, se non avesse avuto altra via d’uscita? Non si sarebbe sentito male all’idea di un’azione così poco monumentale e... peccaminosa?”.

Come detto, la figura del giudice istruttore è importantissima. Alcuni dei più avvincenti dialoghi del romanzo sono proprio quelli tra quest’ultimo e Raskol’nikov.
Ma sono presenti anche alcuni interessanti monologhi in cui il giudice, svelando la sua strategia di indagine, esplicita anche quella che è una caratteristica di alcuni delinquenti, oppressi a tal punto dalla propria azione che finiscono per mettersi in fallo per l’incapacità di dominare la propria emotività:
non mi sfuggirà non tanto perché non sa dove fuggire, ma non mi sfuggirà psicologicamente (…) Non mi sfuggirà per una legge di natura, anche se sapesse dove fuggire. Avete mai osservato una farfalla davanti a una candela? Be’, ecco, lui non farà altro che girarmi intorno, come una farfalla intorno a una candela; la libertà cesserà d’essergli cara, comincerà a esitare, a confondersi nei suoi pensieri, vi si impiglierà come in una rete, diventerà per suo conto mortalmente ansioso!... E non basta: sarà lui stesso a scodellarmi qualche giochetto matematico, come due più due fanno quattro, purché io gli conceda un intervallo un po’ lungo... E continuerà, continuerà a girarmi intorno, in cerchi sempre più stretti, e poi... paf! Mi volerà dritto in bocca, e io l’inghiottirò (…)”.

Una delle parti sociologicamente e narrativamente più interessanti del romanzo è quella successiva alla morte di Marmeladov. La sua famiglia (tra cui Sonja, costretta a prostituirsi per mantenerla), nonostante la condizione di assoluta indigenza, tiene un banchetto funebre, come d’uso, in cui vengono scialacquati quei soldi che Raskol’nikov, in preda al suo ennesimo momento di generosità, aveva donato alla vedova.
Forse, in questo giocava più di tutto quello speciale orgoglio dei poveri per cui, in certe cerimonie sociali obbligatorie per chiunque nel nostro modo di vivere, molti poveracci si spellano e spendono gli ultimi quattro soldi che hanno risparmiato, allo scopo di «non essere da meno degli altri» e non essere «criticati»”.

Nel finale Raskol’nikov acquista consapevolezza del male fatto a se stesso con il delitto, pur continuando a rinnegare il disvalore della propria azione specifica:
Si uccide forse in quel modo? Si va forse a uccidere come ci sono andato io? (…) Ho forse ucciso quella vecchietta? Ho ucciso me stesso, non la vecchietta! Mi sono ammazzato con un colpo solo, e per sempre!...”.
(…)
…Quale delitto?» gridò egli improvvisamente con una specie di improvviso furore. «Perché ho ucciso un pidocchio schifoso, malefico, una vecchia usuraia che non era utile a nessuno, che succhiava il sangue ai poveri, un essere la cui soppressione dovrebbe far perdonare quaranta peccati? Questo sarebbe un delitto?…

Giunta l’inevitabile (ed attesa) condanna, sorge ancora qualche dubbio nella mente di Raskol’nikov:
che importava se fra otto anni lui ne avrebbe avuti soltanto trentadue, e avrebbe potuto ricominciare di nuovo a vivere! Vivere per che cosa? Per quale scopo? A che poteva mirare? Vivere per esistere, forse? Ma se anche prima era stato pronto mille volte a sacrificare la propria esistenza per un’idea, per una speranza, perfino per un sogno... L’esistenza pura e semplice non gli era mai bastata; aveva sempre voluto qualcosa di più. E forse, proprio per la violenza dei suoi desideri si era considerato, allora, un uomo al quale era lecito più che agli altri”.
Ma la progressiva consapevolezza del suo sentimento per Sonja, la quale lo ha seguito in Siberia e cerca di rendersi utile aiutando i detenuti, porta Raskol’nikov alla sua definitiva redenzione, alla sua trasformazione, cui tuttavia Dostoevskij accenna soltanto, nella frase che conclude il romanzo:
Ma qui, ormai, comincia una nuova storia, la storia della rinascita di un uomo, della sua graduale trasformazione, del suo lento passaggio da un mondo a un altro mondo, del suo incontro con una realtà nuova e fino a quel momento completamente ignorata. Potrebbe essere l’argomento di un nuovo racconto; ma il nostro, intanto, è finito”.

Delitto è castigo è un romanzo di rara potenza, capace di regalare emozioni intense senza rinunciare all’eleganza di una scrittura meravigliosa.
Il vero pregio di quest’opera è dato però dalle intense caratterizzazioni dei personaggi e in particolar modo di Raskol’nikov, i cui pensieri vengono riportati sempre ordinatamente ma con l’inarrestabilità di un fiume in piena.
Dostoevskij è il vero precursore del flusso di coscienza, tecnica narrativa che diverrà celebre nella prima metà del Novecento. Vi sono esempi in tutto il romanzo, sebbene il monologo interiore sia spesso intervallato da sprazzi narrativi. Uno di tali esempi, piuttosto significativo, è questo suggestivo passaggio in cui il narratore ci lascia entrare nella testa del protagonista, che sta passeggiando spensieratamente per San Pietroburgo:
Si distraeva per fino – anche se sempre per brevi momenti – in certi pensieri che non c’entravano affatto. Passando davanti al parco Jussupov, si trovò a pensare come sarebbe stato bello che ci fossero delle fontane con lo zampillo molto alto, e a come avrebbero piacevolmente rinfrescato l’aria in tutte le piazze. Poi iniziò un intero ragionamento sul fatto che se il Giardino d’Estate si fosse esteso a tutto il Campo di Marte, unendosi magari al giardino del palazzo Michàjlovskij, sarebbe stata una cosa magnifica e utilissima per tutta la città. A questo punto si pose un quesito interessante: perché in tutte le grandi città l’uomo, non per pura necessità, ma per una specie di curiosa inclinazione, è portato a vivere e a stabilirsi prevalentemente in quelle parti della città dove non esistono né giardini né fontane, dove regnano il fango, la puzza e ogni genere di porcherie. Per associazione di idee pensò alle sue passeggiate in piazza Sennàja, e di colpo tornò in sé. «Che cose assurde!» si disse. «Meglio non pensare a nulla!» «Ecco, dev’essere così che i condannati portati al patibolo si aggrappano con il pensiero a tutto ciò che incontrano lungo il cammino», gli balenò per la mente, ma fu solo un baleno, un pensiero guizzante che egli stesso si affrettò a spegnere...”.
Se i temi del delitto, della deterrenza delle pene e della salvezza attraverso la sofferenza sono sicuramente quelli centrali del romanzo, si possono comunque trovare altri temi secondari (oltre a quello già citato della miseria), ma non meno importanti.
In particolare, merita di essere citato il tema della condizione della donna nell’Ottocento, che emerge soprattutto nella parte centrale. La sorella e la madre di Raskol’nikov, con le loro azioni, dimostrano la devozione che la donna di bassa condizione sociale aveva (e forse doveva avere) nei confronti del familiare di sesso maschile. Un’attenzione totale nei suoi confronti, anche da un punto di vista economico. La madre e la sorella compiono continui sacrifici per lui: la prima indebitandosi, la seconda addirittura accettando di sposare il suo benestante fidanzato, il quale potrà così aiutare Raskol’nikov. La stessa figura del fidanzato di Dunja, l’avvocato Lužin, è importante per presentare una certa visione della donna tipica dell’Ottocento: Lužin accetta di buon grado di sposare una donna di condizione misera al fine di risultare ai suoi occhi come un benefattore a cui è dovuta eterna devozione.

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