Anno di prima pubblicazione: 1992
Edito da: TEA
Voto: 8/10
Pagg.: 346
Traduttore: Silvia Cosimini, Sonia Pendola, Giorgio Rinaldi
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Bill Bryson ama viaggiare. E ama raccontare i suoi viaggi con humour e (molta) autoironia.
Bill Bryson è americano; di quei pochi che sanno che l’Italia è bagnata dal mare e che Vienna è la capitale dell’Austria (“no cangaroos in Austria” recita una curiosa t-shirt, creata ad arte per gli yankees, che vidi quando ci andai qualche anno fa).
Bill Bryson ama l’Europa ed è al suo secondo viaggio nel Vecchio Continente.
Il primo, più volte richiamato e nostalgicamente ricordato, lo fece da ventenne, con un amico, zaino in spalla e biglietto inter-rail in tasca.
Il secondo lo ha fatto vent’anni dopo, con la testa calva e qualche soldo in più nel portafoglio, ma senza tuttavia rinunciare al brivido dell’on-the-road. Qualche hotel di lusso in più, quindi, ma (più o meno) gli stessi treni, gli stessi posti.
Come ogni viaggio, le aspettative sono enormi:
“Nelle lunghe, eccitanti settimane precedenti la partenza, disteso sul letto con lo sguardo al soffitto, mi ero lasciato andare, lo confesso, a una serie di fantasie in cui generalmente mi ritrovavo seduto accanto a una pollastra procace, spedita dal padre contro la propria volontà all'Istituto per la cura della ninfomania di Losanna”.
Parte dall’estremo nord, da Hammerfest, dove sosta a lungo,
incurante dei rigori dell’inverno norvegese, solo per gustarsi un’aurora
boreale coi fiocchi. Ne varrà la pena.
Hammerfest, posto talmente triste che il maggior
divertimento ipotizzabile per la gente del posto è andare a bruciare elenchi
telefonici nelle cabine pubbliche.Poi Oslo.
Parigi.
E a Parigi inizia una lenta profusione di luoghi comuni, nemmeno troppo velata. L’intero libro sembra una consapevole rincorsa alla conferma di essi. La guida spericolata e l’antipatia proverbiale dei francesi. Il primato degli stereotipi per una volta non è nostro.
Poi Bruxelles e il Belgio, fiammingo e vallone.
Aquisgrana e Colonia, insipidamente tedesche.
Amsterdam e Amburgo, con i loro quartieri a luci rosse, pretesto per un profluvio di umorismo scurrile (l’autore sembrava non aspettare altro).
Copenhagen, bellissima.
Goteborg e Stoccolma, giusto per rendersi conto che il clima svedese è esattamente come lo descrivono. La pioggia incessante, infatti, lo costringerà, estenuato, a cambiare giro e a tuffarsi nella più mite Italia, dove riprendere la rincorsa al luogo comune.
Roma: "Mi piace la maniera di parcheggiare degli italiani. Giri qualunque angolo di strada a Roma e hai l'impressione di esserti appena perso una gara di parcheggio riservata a non vedenti".
Napoli, Sorrento e Capri.
Firenze, la cui bellezza è attenuata dal dispiacere di uno scippo (il Ponte Vecchio di Firenze "assomiglia alla stiva del Lusitania subito dopo che qualcuno ha domandato: 'Ma quello non è un siluro?'”). Milano e Como, austere e indaffarate, non sembrano quasi Italia.
La grigia e triste Svizzera, il piccolo Liechtenstein, giusto per dire di esserci passato.
Poi l’Austria e una Jugoslavia ante guerra, ancora politicamente unita ma già profondamente divisa.
Sofia, Bulgaria: a detta di Bryson la più genuina delle città europee, ma anche la più povera. L'unica non americanizzata (non si vede neanche un McDonald).
Sofia è l’emblema della città ex comunista, post caduta del muro di Berlino: la svalutazione della moneta, le code chilometriche per acquistare beni di prima necessità nei negozi.
Il viaggio termina a Istanbul, trionfo di colori, rumori (ed odori): "Per farsi un'idea di come sia la musica leggera turca, basta pensare a una persona che sta subendo un intervento di vasectomia senza anestesia accompagnata da una convulsa strimpellata di sitar". Scelta simbolicamente perché posta al confine con l’Asia.
Lo humour di Bryson è a tratti irresistibile, ma troppo
spesso il livello è da basso cabaret.
Le battute migliori, probabilmente, sono quelle legate a
situazioni non inerenti il viaggio, bensì a ricordi di infanzia o comunque
dell’America:"Quando mi abbordano, mi sforzo di spiegare che gente che gira per strada con calzettoni bianchi e un paio di Hush Puppies e una spilla che dice: 'Salve! Mi chiamo Gus!' non riuscirebbe a convincermi a uscire da una macchina in fiamme, figuriamoci a consacrare la mia vita a un'entità divina".
"Allo Y NOT lavorava una cameriera di nome Shirley, la persona più sgradevole che abbia mai incontrato. Qualsiasi cosa ordinaste, lei vi fissava come se le aveste chiesto la macchina in prestito per portare sua figlia a fare un'orgia a Tijuana nel fine settimana".
"Il prof. Dreck emetteva un pesante sospiro, di quelli che i tonti tengono in serbo per le occasioni speciali, quando capita loro di imbattersi in qualcuno ancora più tonto".
Per il resto, il libro abbonda, purtroppo, di descrizioni da
tripadvisor (soprattutto per quanto
riguarda gli hotel: il bagno era minuscolo, mancava la tv, ecc.).
Sfocia così spesso nello stile “lista della spesa”
associato a quello di una guida turistica, ma tutto sommato è comunque una
lettura gradevole con parecchie cose da ripassare o scoprire sulla nostra cara
vecchia Europa.
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