Anno di prima pubblicazione: 1997
Edito da: Corbaccio, TEA
Voto: 10/10
Pagg.: 345
Traduttore: Lidia Perria
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Per il giornalista e alpinista Jon Krakauer la conquista dell’Everest era un’ossessione che lo accompagnava fin da bambino, per poi scemare nel corso degli anni, seguendo quella parabola discendente che generalmente riflette il calo dell'entusiasmo dell’uomo durante la sua maturazione.
Il monte Everest - per quanto mitico per il fatto di essere la vetta più alta del pianeta - non è infatti sicuramente la montagna più difficile da scalare, ed anzi all’interno del club dei quattordici “ottomila” è una delle meno complicate, nonostante la maggiore altitudine. Motivo per cui, qualche decennio dopo la prima ascesa, la vetta cominciò a venir snobbata dagli alpinisti più esigenti.
Eppure quando la celebre rivista Outside diede a Krakauer l’opportunità di compiere l’impresa, al fine di documentare, in un apposito reportage, il proliferare delle spedizioni commerciali sulla vetta più alta della Terra, l’entusiasmo del giornalista riaffiorò immediatamente.
In questo libro, Krakauer racconta dunque la storia della
drammatica spedizione della Adventure
Consultants, avvenuta nel maggio del 1996. La società fondata dal
neozelandese Rob Hall era stata tra le prime a proporre questa formula di
intrattenimento estremo, facendo pagare a carissimo prezzo (circa 65.000
dollari a testa) un tentativo guidato di raggiungere il punto più alto del
pianeta (senza alcuna garanzia di riuscita).
Un business ampiamente biasimato nel mondo dell’alpinismo, innanzitutto
perché rendeva questa disciplina un capriccio per milionari, con tutti i
problemi che ciò avrebbe comportato: l’affollamento dei campi base, in primis, e la
presenza in altissima quota di dilettanti potenzialmente pericolosi per gli
scalatori professionisti (principalmente perché avrebbero dovuto correre in
loro soccorso in caso di guai).Eppure, Rob Hall era riuscito comunque a godere della stima dell’ambiente, per lo meno per la meticolosità dell’organizzazione, oltre ad un fatto non secondario: dovendo tornare per molti anni per proseguire quell’attività, il neozelandese aveva intrapreso un’opera di pulizia della montagna, rimuovendo moltissimi dei rifiuti (principalmente bombole dell’ossigeno usate) lasciati da spedizioni precedenti e alpinisti professionisti, questi ultimi indubbiamente meno interessati a far sì che l’Everest fosse anche un posto pulito ed attraente per nuovi potenziali clienti.
Scalare il monte più alto del pianeta è una sfida che ha
richiamato e continua a richiamare moltissimi alpinisti, dopo la prima ascesa
portata a compimento nel 1953 dal neozelandese Edmund Hillary e dallo sherpa
Tenzing Norgay.
Negli anni ’90 la scalata dell’Everest era dunque diventata un
vero e proprio business con l’organizzazione delle prime spedizioni
commerciali, di tipo pseudo-turistico.Per tale motivo, nella primavera del 1996 il campo base dell’Everest era sovraffollato per la presenza di molteplici gruppi pronti ad avventurarsi nell’impresa. Alcuni di essi ospitavano aspiranti alpinisti che non erano all’altezza della situazione, anche se in certi casi erano le stesse spedizioni nazionali (contro le quali nessuno si era mai scagliato) ad ospitare i dilettanti più improvvisati.
Tra i clienti della Adventure
Consultants vi erano dunque Krakauer e altri sette compagni di viaggio, assistiti
da tre guide e una serie di sherpa. L’altra importante società che organizzava l’ascesa
per quegli stessi giorni era la Mountain
Madness dell’americano Scott Fischer. La concorrenza tra le due società era
stata intensa (si erano contesi a suon di sconti lo stesso Krakauer, interessati
dal bacino di utenza dei lettori di Outside), ma una volta lasciato il campo base le rivalità dovevano
essere accantonate e i due capi spedizione (che avevano scelto lo stesso giorno
per l’assalto alla vetta) dovettero necessariamente far fronte comune contro l’unica
vera sfidante: la montagna.
Come gli altri “ottomila” l’Everest è posta nella cosiddetta
“zona della morte” (che comincia al di sopra dei 7.600 metri), una fascia di
altitudine in cui la sopravvivenza umana diventa fisiologicamente
insostenibile, se non per brevi periodi di tempo: l’estrema scarsità di
ossigeno (circa un terzo di quello presente sul livello del mare) porta infatti
le cellule a morire progressivamente, senza alcuna possibilità di acclimatazione.
Dopo l’avvicinamento al campo base e alcuni giorni di
esercitazioni, arriva infine il momento dell’assalto alla vetta, che dal
versante nepalese si effettua partendo dal “campo quattro”, posto appena al di
sotto di quota 8.000.Quella che sembrava una giornata fortunata per le due spedizioni (considerato che l’anno prima nessuno dei clienti di Rob Hall era riuscito ad arrivare in cima) si tramuterà in una tragedia.
Dopo che tutti o quasi i clienti di Fischer avevano raggiunto la vetta, seppure in ritardo rispetto alla tabella di marcia, Rob Hall si attardò per attendere uno dei pochi suoi clienti che ce l’avevano fatta (oltre a Krakauer e una donna giapponese).
Una scelta che si rivelò infausta e che si fatica a comprendere, soprattutto perché presa da una guida meticolosa ed esperta come Hall.
Fatto sta che i ritardatari si imbatterono, durante la discesa, in una delle più violente tempeste di neve che l’uomo abbia affrontato a quelle altitudini, giunta senza sufficiente preavviso (come del resto spesso accade sull’Himalaya).
Quel giorno persero la vita i due capi spedizione, Hall e Fischer, la guida Andy “Harold” Harris, e due clienti della Adventure Consultants.
Tra i componenti della spedizione di Rob Hall che erano giunti in cima, soltanto Krakauer e la seconda guida Mike Groom riuscirono a sopravvivere. Gli altri cinque clienti erano saggiamente tornati indietro, poco prima della vetta, preoccupati dai ritardi.
Quella di abbandonare la vetta quando mancano soltanto
poche centinaia di metri è una decisione sempre difficile da prendere,
soprattutto per clienti che pagano quasi 70.000 dollari per raggiungerla.
Una scelta difficile non soltanto per
ragioni economiche o di orgoglio: la scarsità di ossigeno a quelle altitudini,
pur attenuata dalle bombole d’ossigeno, non
permetteva infatti di prendere decisioni lucide, se non a chi aveva esperienza
di quelle situazioni.Arrivare in vetta, infatti, può essere relativamente semplice, almeno per una persona debitamente preparata e motivata. Ma la vetta rappresenta soltanto la metà del cammino, non il termine. E i problemi iniziano generalmente con la discesa, quando iniziano a mancare del tutto le forze, quando comincia a diventare tardi e quando magari le bombole d’ossigeno non sono più sufficienti.
Ecco perché erano presenti le guide, ed ecco perché stupisce la decisione di Rob Hall di attendere Doug Hansen due ore oltre il tempo limite fissato per la discesa.
Quella di Doug Hansen era una storia sicuramente importante e commovente: un postino che per pagarsi il sogno di scalare l’Everest da tempo svolgeva un doppio lavoro. I bambini della scuola della comunità in cui viveva avevano organizzato una raccolta fondi per aiutarlo. Doug era stato sull’Everest, sempre con Rob Hall, già l’anno prima, e si era dovuto fermare a poche centinaia di metri dalla vetta, perché era troppo tardi.
Ecco perché forse quella volta Hall aveva ceduto all’emotività, pagando a carissimo prezzo la sua decisione.
Krakauer ipotizza che, nella generale mancanza di lucidità che si sperimenta a quelle quote, abbia potuto influire anche un motivo squisitamente commerciale: aver visto tutti o quasi i clienti di Fischer giungere in vetta, a fronte di due soltanto dei suoi (il terzo sarebbe stato proprio Hansen).
Hall e Hansen erano dunque ancora in cima quando sopraggiunse la bufera di neve. Harris tentò di andare in loro soccorso, tornando verso la vetta e pagando con la vita il suo eroico tentativo.
Degli altri alpinisti deceduti, l’esperta guida Scott Fischer aveva chiesto troppo alle sue pur enormi capacità (nei giorni precedenti era salito e sceso tra i vari campi svariate volte), e la cliente giapponese di Hall fu l’unica (per certi versi miracolosamente) del folto gruppo dei ritardatari a perdere la vita a causa della bufera.
Krakauer racconta i drammatici eventi del ’96 con una prosa affascinante e totalmente coinvolgente: il lettore percepisce ciascuna situazione quasi come se fosse presente sul posto, con un’intensità, con un realismo difficilmente riscontrabili in altre opere del genere.
L’autore illustra dettagliatamente tutti i disagi, tutti i malesseri che si provano a quelle altitudini e il grado di empatia e di comprensione del lettore non può che essere elevatissimo.
Dopo aver letto Aria sottile, sarà difficile non avere la sensazione di esserci stati personalmente sulla vetta della montagna più alta del mondo.
Un risultato importantissimo per un reportage.
Più difficile spiegare le ragioni che portano certi uomini ad affrontare imprese così estreme e potenzialmente letali: Krakauer non sembra nemmeno provarci più di tanto, ma del resto chi ama la montagna sa benissimo di cosa si stia parlando.
Questo è forse l’unico limite di questo libro: rasenta la perfezione per chi è appassionato di montagna, per coloro che già conoscono quella irresistibile pulsione; non riesce invece a spiegare ciò che è invero ineffabile, a coloro che non nutrono questa passione e che quindi faticano a comprendere quelli che sembrano folli sacrifici.
Aria sottile è
anche celebre per aver dato adito ad uno dei dibattiti più famosi e controversi
della storia dell’alpinismo.
Nel cercare di spiegare le ragioni della tragedia (posto che
quasi sempre dietro un fallimento in alta quota vi sono errori umani), Krakauer
critica alcuni aspetti organizzativi, come ad esempio il mancato fissaggio di
corde sull’Hillary Step, dovuto probabilmente al lassismo di alcuni sherpa. Ma in particolare l’Autore biasima il comportamento di una guida della Mountain Madness, il kazako Anatoli Boukreev, accusato per la sua decisione di salire senza ossigeno, cosa che lo portò a scendere in anticipo rispetto alle altre guide (e al resto del gruppo).
Krakauer riconosce tuttavia a Boukreev (che è stato uno dei più grandi scalatori di “ottomila”) di essersi reso protagonista dell’eroico salvataggio di tre dei suoi clienti, uscendo più volte da solo in mezzo alla tormenta e vagando senza visibilità per cercare di recuperare eventuali sopravvissuti.
Nessun altro, del resto, era nelle condizioni di seguirlo, perché tutti erano troppo esausti.
La sua scelta di scendere prima - criticata pesantemente non solo da Krakauer ma anche da molte guide professioniste - fu dunque per certi versi provvidenziale, perché gli diede modo di rifocillarsi e riposarsi, recuperando le forze necessarie per il successivo eroico salvataggio.
Eppure - ciò nonostante - in molti hanno criticato la scelta del kazako di salire senza ossigeno: una cosa è compiere le proprie imprese estreme in solitaria, altro è il ruolo di guida, per il quale bisogna essere lucidi e sempre pronti ad assistere il cliente.
Boukreev presenterà la sua versione dei fatti in un libro di risposta, The climb, scritto poco prima di morire sull’Annapurna, diciotto mesi dopo la tragedia dell’Everest.
Nasceva così questo aspro dibattito, riepilogato nella ricca postfazione in cui Krakauer, da un lato, esprime cordoglio per la scomparsa del kazako, presentando, dall’altro, l’intera disputa in modo piccato. Una diatriba che vide schierarsi anche due tra i più noti alpinisti italiani di sempre: Messner (che secondo Krakauer criticò la scelta di Boukreev) e Simone Moro, che invece appoggiava in toto il suo amico e compagno di scalate kazako (Moro si trovava con lui quando Anatoli morì sull’Annapurna).
Aria sottile è il
terzo libro di Krakauer, scritto dopo quella che è probabilmente la sua opera più
celebre, Into the Wild – Nelle terre
estreme, in cui presentava la triste storia di Chris McCandless e che
diventerà un film diretto da Sean Penn. Così come Into thin Air, anche Into the
Wild era nato come articolo dell’Outside
magazine, poi utilizzato come base per un intero libro.
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