1 novembre 2015

Everest 1996, di Anatolij Bukreev e Weston DeWalt

Everest 1996. Cronaca di un salvataggio impossibile (The Climb: Tragic Ambitions on Everest), di Anatolij Bukreev e Gary Weston DeWalt

Anno di prima pubblicazione: 1997

Edito da: CDA & Vivalda

Voto: 7,5/10

Pagg.: 240

Traduttore: Mirella Tenderini

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Everest 1996 nasce come risposta ad Aria sottile (per il quale vedi qui), il libro in cui Jon Krakauer aveva raccontato la tragica spedizione sulla montagna più alta della Terra compiuta nella primavera del 1996 da due società, la Adventure Consultants e la Mountain Madness.
Il giornalista e alpinista americano, cliente della Adventure Consultants, aveva infatti criticato pesantemente il comportamento di Anatolij Bukreev, una guida della Mountain Madness.

In questo libro Bukreev fornisce la sua versione dei fatti, raccontando dettagliatamente la preparazione e lo svolgimento della spedizione, a partire dal primo incontro con l’americano Scott Fischer - capo della Mountain Madness - che gli propose il lavoro conoscendo la sua ottima reputazione come scalatore di “ottomila”.
Fischer era alla sua prima spedizione commerciale sull’Everest, organizzata sull’onda del successo che negli anni precedenti aveva avuto il neozelandese Rob Hall, capo della Adventure Consultants. Fino a quel momento Hall era riuscito ad accompagnare poco meno di quaranta clienti paganti in cima alla vetta himalayana. Un successo straordinario, che aveva dato fama internazionale al neozelandese, nonostante la pratica delle spedizioni commerciali fosse acremente biasimata dai puristi dell’alpinismo, che denunciavano questo business come irrispettoso e, soprattutto, pericoloso.
Bukreev era probabilmente di queste stesse idee, ma doveva di contro far fronte alle ingenti spese da sostenere per la sua attività di alpinista. L’unico modo per finanziarsi era quello di fare da guida per clienti disposti a pagare una fortuna (circa 65.000 dollari) per un tentativo guidato di raggiungere il punto più alto della Terra.
Il kazako accettò dunque il lavoro offertogli da Fischer e si attivò per aiutare nell’organizzazione della spedizione.
Dopo un lungo lavoro di allenamento e di acclimatazione alle elevate altitudini effettuato con i clienti, giunse il momento di tentare l’assalto alla vetta, previsto per il 10 maggio 1996.
Quel giorno gran parte dei membri delle due spedizioni commerciali (che avevano scelto la stessa data per l’ascesa, unendo quindi le forze) riuscirono a raggiungere la vetta, dopo vari imprevisti e con notevole ritardo sulla tabella di marcia.
Durante la discesa, tuttavia, quando molti avevano terminato l’ossigeno a causa dei ritardi, furono sorpresi da una fortissima bufera di neve.
Il prezzo in termini di vite umane fu altissimo: morirono in tutto cinque persone, tre guide (i due capi-spedizione e una guida di Hall) e due clienti della Adventure Consultants.

Bukreev (che per la stesura delle sue memorie si fece assistere dal giornalista Weston DeWalt) ripercorre quei fatidici momenti con precisione e lucidità, senza fronzoli, restituendo efficacemente al lettore le sensazioni provate in quei giorni drammatici. Siamo tuttavia molto distanti dalla maestria con cui Krakauer ha saputo raccontare quegli stessi episodi, senza con ciò voler prendere parte nella diatriba sorta tra i due. Del resto, Krakauer era, oltre che un alpinista, un giornalista e scrittore già affermato (e noto per il suo Into the wild). Bukreev, per quanto coadiuvato da De Walt, non riesce a catturare nello stesso modo il lettore, a regalare quel senso di immedesimazione che fa di Aria sottile un libro unico nel suo genere.
Forse non aiuta lo stile adottato da DeWalt, una continua alternanza tra i ricordi di Bukreev riportati in prima persona (facilmente identificabili per l’uso del corsivo) e il reportage in terza persona fatto dal giornalista sulla base delle stesse dichiarazioni del kazako, nonché di altri documenti e registrazioni, oltre alle testimonianze degli altri protagonisti di quelle vicende.
Uno stile che, di contro, permette almeno di evitare quello che, diversamente, sarebbe stato un lungo monologo di Bukreev.

Al di là delle questioni stilistico-narrative, sulle quali Krakauer è oggettivamente impareggiabile, occorre poi valutare il contenuto.
Come detto, questo libro nasce anche (o forse soprattutto) per contestare la versione dei fatti fornita da Krakauer, che aveva criticato Bukreev soprattutto su un punto: la sua decisione di salire senza ossigeno, che lo avrebbe portato a scendere prima di tutti, non potendosi rendere utile nel momento in cui i clienti della Mountain Madness furono investiti dalla bufera.
Accuse a cui il kazako risponde molto semplicemente: sebbene a tanti possa sembrare assurdo accompagnare dei clienti senza utilizzare l’ossigeno (diverso è invece quando un alpinista sceglie di farlo per conto suo, al di fuori di una spedizione guidata), la sua esperienza sugli ottomila gli dice che ciò invece è meglio (per chi ne ha la possibilità, per allenamento e doti fisiche), perché l’ossigeno è in fin dei conti una sorta di doping che non consente di comprendere le proprie reali condizioni fisiche e di salute. Senza contare che per chi usa l’ossigeno e dovesse malauguratamente finirlo, la situazione precipita drammaticamente da un momento all’altro, esponendo il fisico al rischio di un immediato tracollo.
L’Everest, come gli altri ottomila, si trova infatti nella cosiddetta “zona della morte”, una fascia di altitudine oltre la quale la sopravvivenza umana è pressoché impossibile, se non per brevi periodi di tempo. Nella zona della morte la scarsità di ossigeno non permette spesso di concentrarsi e di ragionare. Il freddo pungente espone continuamente al rischio di congelamento delle estremità (soprattutto dita delle mani e dei piedi). Per percorrere brevi tratti ci vogliono tempi lunghissimi, perché la stanchezza, la scarsità di ossigeno, il freddo, la neve, fanno sì che ci si debba fermare a prender fiato a volte anche ad ogni passo (un qualcosa difficilmente concepibile per chi non è mai stato ad elevate altitudini, ma che viene evidenziato sufficientemente bene nel libro).
Bukreev spiega poi come la sua decisione di scendere per primo fosse stata condivisa con il suo capo-spedizione: il kazako aveva pensato di potersi rendere maggiormente utile tornando al campo base e recuperando bombole di ossigeno per chi avesse dovuto terminarle durante la discesa, piuttosto che rimanendo in vetta ad attendere inerte con le altre cinque guide.
Il fatto che Bukreev sia sceso per primo si rivelerà in ogni caso provvidenziale per il salvataggio di tre clienti che il kazako effettuerà eroicamente durante la notte, cosa che peraltro viene riconosciuta da Krakauer.

Difficile per i non addetti ai lavori schierarsi in questa disputa, soprattutto perché le due opinioni riflettono scuole di pensiero diverse. Gli stessi esperti si sono divisi a favore dell’uno o dell’altro, tanto che Bukreev, dopo questa esperienza, ripensò al suo stesso ruolo di accompagnatore, proponendosi non più come “guida” ma come “consulente-preparatore”. Una distinzione forse sottile e di cui il kazako era convinto che in molti si sarebbero burlati:
Io posso fare l’allenatore, il consulente; posso occuparmi della squadra di soccorso. Ma non posso garantire il successo a nessuno né garantire la sicurezza assoluta perché la complessità delle circostanze naturali e la debilitazione fisica possono colpire chiunque in alta quota. Io per me accetto l’idea che in montagna posso morire”.
Quella fu purtroppo la tragica fine di Bukreev, che morì sull’Annapurna - circa un anno e mezzo dopo i fatti dell’Everest e pochi mesi dopo l’uscita di questo libro - travolto da una valanga mentre tentava di aggiungere un altro ottomila alla sua incredibile carriera di alpinista.

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