8 aprile 2015

Fedone, di Platone

Fedone, di Platone

Anno di probabile scrittura: 387 a.C. circa

Edito da: Laterza, Rusconi, Bompiani, Newton & Compton

Voto: 6,5/10

Pagg.: 235 (nell'edizione Laterza)

Traduttore: Gino Giardini (nell'edizione Newton & Compton)

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Quarto e ultimo dialogo della Prima Tetralogia (preceduto da Eutifrone, Apologia di Socrate e Critone), il Fedone è ambientato nel giorno in cui deve essere messa in esecuzione la condanna a morte di Socrate, a seguito del celebre processo descritto nell’Apologia.

Il Fedone non sembra essere stato scritto negli anni immediatamente successivi alla morte del Maestro di Platone, a differenza dell’Apologia e del Critone, dai quali si discosta sia per ragioni stilistiche che di contenuto.
Il Fedone è infatti un’opera in cui appaiono larghi sprazzi di uno stile narrativo sconosciuto agli altri tre dialoghi della tetralogia (sia per il discorso indiretto, sia per la descrizione narrativa di alcuni episodi, soprattutto nel finale).
Vi si trovano, inoltre, alcune teorie platoniche che furono sicuramente sviluppate nel periodo cosiddetto della maturità.

Il dialogo narra le ultime ore di Socrate, come raccontate da Fedone a Echecrate, un pitagorico interessato ad avere qualche notizia in più sulla morte del filosofo rispetto a quelle assai vaghe giunte da Atene.
Nel giorno previsto per la condanna a morte, i discepoli di Socrate si recano nel luogo in cui questi è detenuto, trovandovi la moglie e i tre figli in lacrime.
Come già nel Critone, Socrate attende la morte senza turbamenti né angosce, a differenza della sua famiglia e dei suoi discepoli:
moriva così nobilmente e senza paura, tanto che mi si presentava come uno che, pur andando nell’Ade, non vi andava senza un disegno divino e che, una volta giunto là, sarebbe stato felice”.
Ciò è idealmente coerente con la concezione che Socrate ha dei filosofi, accostati con una metafora a dei moribondi:
Tutti quelli che si occupano seriamente di filosofia corrono il rischio che gli altri non si accorgano che essi a niente altro tendono se non a morire e a essere morti.

Temi principali del lungo dialogo che Socrate tiene con i suoi discepoli, nelle ultime ore della sua vita terrena, sono la morte e la pretesa immortalità dell’anima.
«Dunque che altro pensiamo che sia la morte se non una separazione dell’anima dal corpo? E che il morire sia questo, da un lato un separarsi del corpo dall’anima, per starsene il corpo da sé, dall’altro un distaccarsi dell’anima dal corpo per starsene a sua volta da sola? Forse dunque la morte è qualcosa di diverso da questo?»
La morte è vista da Socrate in modo tutt’altro che negativo: essa potrebbe anzi essere la porta verso la conoscenza e la verità, permettendo all’anima di liberarsi dal corpo, il quale, a causa delle esigenze terrene a cui esso è legato, costituisce un ostacolo:
finché abbiamo il corpo e la nostra anima è intrisa di cotesto male, mai riusciremo a raggiungere pienamente quello cui aspiriamo e che diciamo essere la verità. Infiniti sono gli ostacoli che ci crea il corpo a causa del necessario sostentamento.
Se non è possibile, assieme al corpo, pervenire alla conoscenza di qualcosa nella sua essenza, delle due l’una: o non è affatto possibile raggiungere il sapere, o lo è quando si è morti; soltanto allora infatti l’anima si troverà sola per se stessa, separata dal corpo, ma non prima.

Il tema dell'immortalità dell'anima viene affrontato con varie argomentazioni: la pretesa rinascita a seguito della fine dell’esistenza, la differenza fra anima e corpo, l'idea che la morte non possa risiedere nell'anima (in quanto essa è ontologicamente collegata all'idea della vita).

Nel Fedone troviamo anche l’esposizione del motivo per cui, secondo Socrate, la filosofia, quale scienza speculativa del sapere puro, sarebbe superiore alle scienze fisiche nella ricerca della verità:
«Dopo che», egli riprese, «mi fui ritirato dall’indagine sui fenomeni naturali, mi sembrò di dovermi ben guardare perché non mi capitasse quel che avviene a coloro che indagano e osservano l’eclissi del sole. Alcuni infatti si rovinano la vista, a meno che non ne guardino l’immagine riflessa nell’acqua, o in qualcosa di simile. A questo pensai anch’io, ed ebbi timore che si annebbiasse del tutto l’anima mia a osservare ogni fenomeno con gli occhi e a cercare di raggiungerlo con ciascuno dei sensi. Perciò mi parve bene ricorrere ai ragionamenti e, rifugiandomi in essi, osservare la verità del reale”.

È anche presente un interessante passaggio in cui viene descritto l’Ade in un modo che sembra anticipare la descrizione dei gironi danteschi dell’inferno:
Questi luoghi dunque sono fatti così: e quando le ani­me dei defunti giungono là dove il demone accompagna ciascuno, anzitutto vengono giudicati quelli che sono vissuti in maniera santa e onesta e quelli che no. E quelli che risulta che siano vissuti in maniera mediocre, giunti all’Acheronte, salgono su barche che si trovano là per loro, e su di esse giungono alla pa­lude Acherusiade; qui risiedono e purificandosi dalle colpe, se qualcuno ne ha mai commesso, se ne liberano pagandone lo scotto, mentre ciascuno riporta il premio per i suoi meriti in proporzione alla qualità. Ma quanti invece si trovano in una condizione irrimediabile per la gravità dei loro peccati , come quelli che hanno compiuto molti e gravi sacrilegi e uccisioni inique e molti misfatti contro la legge e altre azioni di tale fatta, questi un giusto destino li fa precipitare nel Tartaro da dove non escono più. Coloro invece che hanno commesso colpe gra­vi ma pur sanabili, come chi sotto la spinta dell’ira ha compiuto qualche violenza contro il padre e la madre e ha vissuto poi il resto della vita nel rimorso, o chi è divenuto assassino in modo simile, per necessità devono precipitare nel Tartaro, ma una volta caduti là e dopo esservi rimasti per un anno l’onda li spinge fuori, gli omicidi lungo il Cocito, i violenti contro il padre e la madre lungo il Piriflegetonte. E quando, portati dalla corrente, giungono alla palude Acherusiade, là gridano e invocano quelli che hanno ucciso o quelli contro i quali hanno usato violenza e, invocandoli, li supplicano e li pregano di la­sciarli venire fuori dalla palude e di accoglierli e, se li convincono, escono e cessano dai loro tormenti, se no, vengono riportati ancora nel Tartaro e di là ancora nei fiumi e non cessano di soffrire tali pene prima di avere convinto quelli cui hanno recato offesa. Siffatta pena infatti fu imposta loro dai giudici. Ma quelli invece che si siano palesemente distinti per essere vissuti in maniera santa vengono a essere liberati da questi luoghi dentro la terra e , allontanati da essi come da un carcere , salgono in alto giungendo in una pura dimora, e vivono sulla vera terra. E tra di essi quelli che si sono sufficientemente purificati nella filosofia vivono senza esigenze corporali per il resto del tempo e giungono a dimore ancora più belle di queste , che non è facile descrivere né, al presente, vi è tempo sufficiente per farlo.

Nella parte finale, dopo i lunghi ragionamenti che Socrate fa con i propri discepoli sul tema della morte e dell’immortalità dell’anima, si apre, come detto, una fase pseudo-narrativa legata all’esecuzione della condanna a morte.
I discepoli, con l’avvicinarsi del momento fatale, manifestano tutto il proprio scoramento:
insieme meditavamo sulla sventura che ci era capitata, quanto era grande, ben consapevoli che avremmo dovuto trascorrere il resto della vita da orfani, essendo stati privati come di un padre.
Sopraggiunge l’uomo che dovrà eseguire la sentenza, fornendo il veleno a Socrate:
«Bene, brav’uomo, tu che di queste cose sei pratico, che bisogna fare?» «Nient’altro», rispose, «che camminare un po’ intorno dopo aver bevuto, finché non sopraggiunga una pesantezza nelle gambe, poi sdraiarsi. Così farà il suo effetto da sé».
Le ultime parole pronunciate da Socrate e rivolte al discepolo Critone, hanno fatto discutere la critica, che ha accolto diverse interpretazioni:
fu l’ultima volta che si udì la sua voce: «O Critone», disse, «siamo ancora in debito di un gallo ad Asclepio. Dateglielo e non dimenticatevene».
Il gallo da sacrificare ad Asclepio, dio della medicina, è stato inteso, da un lato, come ringraziamento per la liberazione dalla vita, mentre secondo un'altra teoria si tratterebbe del ringraziamento per essere scampati alla malattia della mente che aveva fatto pensare loro all’idea della fuga per sottrarsi alla condanna a morte (anche se, nel Critone, Socrate sembra bocciare quest’ipotesi senza indugi). In ogni caso, l’utilizzo del “noi” (siamo ancora in debito), sembrerebbe escludere la prima teoria.
Il finale del Fedone è assolutamente memorabile:
Questa, Echecrate, fu la fine del nostro amico, l’uomo migliore, possiamo ben dirlo, fra tutti quelli che abbiamo conosciuto, senza confronto il più saggio e il più giusto.

Se la parte narrativa del Fedone (nonostante si riveli anomala nel panorama dei Dialoghi) è assolutamente interessante, la parte centrale, puramente filosofica, è invece assai dura da digerire per chi non è avvezzo ai temi e ai ragionamenti della filosofia classica.
In tal senso, il Fedone crea una discontinuità rispetto agli altri dialoghi della prima tetralogia, basati, con varie sfaccettature, sul tema decisamente più concreto della giustizia.
Introducendo il tema della morte e dell'immortalità dell'anima Platone dà invece ingresso alle sue teorie, elevando la complessità del discorso filosofico.

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