9 maggio 2015

Armi, acciaio e malattie, di Jared Diamond

Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni (Guns, Germs and Steel: The Fates of Human Societies), di Jared Diamond

Anno di prima pubblicazione: 1997

Edito da: Einaudi

Voto: 8/10

Pagg.: 400

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Il contenuto di questo interessante saggio di Jared Diamond è ben riassunto dal sottotitolo italiano dell’opera: ci troviamo di fronte ad una storia dell’uomo negli ultimi 13.000 anni, ossia dalla fine dell’ultima glaciazione (che permise all’uomo di dedicarsi ad un’attività capace di rivoluzionare il suo modo di stare al mondo, l’agricoltura), fino ai giorni nostri.

Il libro, premio Pulitzer per la saggistica nel 1998, prende spunto da una domanda che venne rivolta all’Autore da Yali, un abitante della Nuova Guinea, luogo in cui Diamond svolse buona parte dei suoi studi antropologici (la Nuova Guinea presenta una interessantissima varietà, basti pensare che in questo relativamente piccolo territorio sono parlate circa 5.000 differenti lingue, delle 6.000 totali parlate sulla Terra): ciò che si chiedeva Yali, in buona sostanza, era il motivo per cui l’uomo occidentale, e in particolare l’europeo, avesse finito per prevalere nella storia del nostro pianeta, sia da un punto di vista storico-coloniale, che da un punto di vista di progresso tecnologico. E come mai ciò non sia accaduto, invece, per uno qualsiasi degli altri popoli che abitavano (e abitano) la Terra.

Un esempio lampante di come la domanda di Yali si adatti alle vicende storiche che hanno interessato il nostro pianeta si può trovare nella conquista del centro-sud America da parte degli spagnoli, e ad un episodio in particolare: la sconfitta di Atahualpa, re degli Inca, a capo di un esercito di 80.000 uomini, da parte di Francisco Pizarro, il quale poteva contare soltanto su un esercito di 168 uomini.
L’episodio è in effetti sconvolgente, vista la notevole sproporzione tra le due forze in campo, e ben fa comprendere quanto fu importante nella conquista del Nuovo Mondo la superiorità militare, basata su armi da fuoco, lame in acciaio e cavalleria.
Il resto lo fecero poi le epidemie di malattie che gli europei importarono in America, e che mieterono una quantità incredibile di vittime tra gli indigeni (in alcuni popoli con percentuali vicine al 100%).

Il suggestivo titolo dell’opera dunque, sembra riassumere, in prima battuta, una possibile prima risposta alla domanda di Yali:
C’è chi individua i fattori principali dell’espansione europea nelle armi, nelle malattie infettive, negli utensili di acciaio e nella produzione in serie. Siamo sulla buona strada: effettivamente, queste furono cause dirette e immediate delle conquiste. Ma è un’ipotesi incompleta, perché non parla delle cause remote e lascia senza risposta la domanda fondamentale: perché proprio gli europei finirono con l’avere le armi, l’acciaio e le peggiori malattie?”.
L’approccio astratto e generalista adottato dall’Autore cerca dunque di spiegare il corso della Storia nel modo più scientifico possibile.
Ciò che l’Autore fa sin da subito è escludere qualsiasi teoria di stampo razzista (ossia che presupponga la superiorità di un’etnia rispetto ad altre, cosa che la neurobiologia ha sempre negato recisamente).
La spiegazione basata sulla razza è quella che appare immediatamente più semplice, anche per la difficoltà a formulare una teoria alternativa.
Eppure si tratta niente meno che di un ragionamento circolare: “si inferisce l’esistenza di diversità culturali partendo da quelle tecnologiche”.
Diamond propone una tesi fondata principalmente su fattori ambientali: “I destini dei popoli sono stati cosí diversi a causa delle differenze ambientali, non biologiche, tra i popoli medesimi”.
Un’idea che viene spesso considerata semplicistica, quando non proprio errata. Viene infatti bollata come “determinismo ambientale” o liquidata come troppo complessa. Ma l’Autore prova a smontare tali confutazioni.

Come è dunque successo che da determinate differenze geografico-ambientali si sia arrivati alle armi, all’acciaio e alle malattie, che hanno aiutato l’europeo (o i suoi discendenti), di fatto, a conquistare il mondo?
Per l’Autore un prerequisito necessario per giungere alle armi, all’acciaio e alle malattie è costituito dall’agricoltura:
Il surplus alimentare è essenziale per la nascita e la proliferazione di quelle figure sociali non dedite in permanenza alla produzione di cibo, figure che una popolazione nomade non può permettersi.
Un’organizzazione sociale complessa, dunque, porta allo sviluppo tecnologico (armi ed acciaio).
I popoli che divennero agricoltori per primi si guadagnarono un grande vantaggio sulla strada che porta alle armi, all’acciaio e alle malattie: da allora, la storia è stata una lunga serie di scontri impari tra chi aveva qualcosa e chi no.
Nella storia dell’uomo, il passaggio da un’economia nomade di caccia e raccolta ad una essenzialmente agricola e stanziale, non fu così immediato, anche perché, fino ad una certa epoca, la caccia era decisamente più semplice e conveniente, per vari motivi: per l’abbondanza di grossi mammiferi; perché non si erano sviluppati gli strumenti adatti a coltivare la terra (e a conservare il raccolto); perché la densità di popolazione era ancora molto bassa. L’agricoltura, con le sue difficoltà e i suoi imprevisti, poteva addirittura essere controproducente.
Il collegamento tra agricoltura e malattie è meno intuitivo: la maggior parte delle maggiori patologie che colpiscono l’uomo ha origine animale. L’inizio di una stabile vicinanza tra l’uomo e gli animali (che egli scelse come aiuto per la sua attività) sta alla base dell’incremento di malattie nell’uomo. Ma mentre l’uomo eurasiatico ebbe secoli, se non millenni, per abituarsi ad esse (in una sorta di selezione darwiniana su larga scala), così non fu per quegli uomini che vennero colonizzati velocemente dagli europei e videro irrompere nelle loro vite malattie immediatamente letali per la totale assenza di anticorpi.

Il fattore ambientale incide dunque innanzitutto per il suo rapporto con l’attività agricola:
- zone più adatte e zone meno adatte alla coltivazione (le aree temperate dell’Europa e della cosiddetta mezzaluna fertile mediorientale contro le zone desertiche dell’Africa, che pure avevano avuto il vantaggio di ospitare l’uomo per milioni di anni prima che questi si spostasse nell’Eurasia);
- territori con una maggiore o minore presenza di specie vegetali commestibili autoctone;
- zone che avevano o non avevano animali adatti ad aiutare l’uomo nel lavoro della terra (la scarsità di mammiferi autoctoni del continente americano in raffronto all’abbondanza eurasiatica).
Il fattore ambientale ha anche una connotazione più strettamente legata all’accessibilità geografica.
Un esempio è quello del mancato incontro nel continente americano tra la ruota inventata in Messico come giocattolo, e il lama delle Ande, che avrebbe potuto diventare un animale da traino.
Lo sviluppo agricolo avrebbe potuto beneficiare tantissimo da un tale incontro, e dallo sviluppo agricolo, spiega Diamond, deriva il progresso intero della società: non tutte le persone devono occuparsi del reperimento del cibo e dunque possono dedicarsi ad altre attività (da cui derivano, a catena, la scrittura, l’organizzazione socio-politico-militare, ecc.).

L’Autore tratta anche altri argomenti legati all’espansione dell’influenza dell’uomo nel pianeta. Molto interessante è quello dei rapporti tra di esso e gli animali che ha incontrato.
Perché in alcuni ambienti l’influenza umana è stata devastante, portando all’estinzione di varie decine di specie in pochissimo tempo, mentre in altre parti del mondo ciò non si è verificato?
La spiegazione è tutto sommato semplice: gli animali africani ed eurasiatici vissero a lungo tempo a contatto con gli uomini primordiali, imparando gradualmente a temerli man mano che la loro abilità di cacciatori migliorava. La stesa cosa non fu possibile in quei luoghi in cui l’uomo approdò successivamente, quando era già divenuto un abile cacciatore.

Interessante è anche un’altra teoria che potrebbe dare una risposta alla domanda di Yali: quella che l’Autore definisce “visione eroica dell’invenzione” e che attribuisce i meriti del progresso dell’uomo ad una ristretta cerchia di persone “geniali” che, con le loro invenzioni, sono arrivati là dove la maggior parte degli uomini non sarebbe arrivata, facendo beneficiare delle loro scoperte le proprie comunità.
Ma anche questa teoria viene bocciata da Diamond: “la tecnologia progredisce accumulando le esperienze di molti, non per atti isolati di singoli eroi; e i suoi usi vengono quasi sempre alla luce in un secondo tempo, perché quasi mai un oggetto si inventa pensando di soddisfare specifici bisogni”. Uno degli esempi più eclatanti, ancorché moderno, è quello della benzina: un tempo essa veniva gettata via come scoria, come inutile residuo del carburante utilizzato per le lampade a olio.
Mentre parla di invenzioni, l’Autore espone una delle curiosità più interessanti dell'intero saggio: pochi sanno che la tastiera QWERTY fu disegnata nella seconda metà dell’Ottocento in modo da essere volutamente irrazionale. È infatti progettata in modo da rallentare il lavoro di chi la usa, perché i primi modelli di macchina da scrivere si bloccavano se due tasti adiacenti erano battuti in rapida successione.

In sintesi, l’Autore riassume così la sua teoria:
le società umane hanno avuto storie differenti a causa della geografia e dell’ecologia, non delle peculiarità biologiche dei vari popoli. La tecnologia, le forme di governo centralizzate e altre caratteristiche tipiche delle civiltà complesse si sono potute manifestare solo in presenza di grandi agglomerati di popolazioni sedentarie, in grado di accumulare surplus alimentari grazie all’agricoltura e all’allevamento (due invenzioni che risalgono all’8500 a. C. circa). Ma le piante e gli animali essenziali per queste attività non erano disponibili ovunque nel mondo.

Rimane comunque difficile spiegare, ad esempio, perché l’Europa ebbe la meglio su una popolazione che, in linea teorica, aveva avuto accesso ai suoi stessi mezzi: i cinesi, infatti, appartengono allo stesso macro-ceppo eurasiatico, e vivono in un territorio geograficamente assimilabile a quello dell’Europa (per varietà vegetale e animale, nonché per conformazione orografica).
Sulla questione Cina hanno influito altre vicende, principalmente di tipo politico-sociale: l’isolazionismo in cui si chiuse la Cina in un periodo cruciale della storia umana (quello post-medioevale e pre-rivoluzione industriale) fu determinante per fermare sul nascere lo sviluppo di una potenza che, diversamente, avrebbe potuto competere con l’Europa a livello globale.

Il libro è davvero una piacevole lettura.
Forse un po’ troppo lungo per un intento meramente divulgativo, eppure mai pretenzioso o eccessivamente scientifico da farlo ritenere materia esclusiva per gli addetti ai lavori.
L’Autore illustra la sua teoria in modo sì molto dettagliato (in alcuni casi forse anche troppo, dato che sembra di leggere un trattato di botanica piuttosto che di zoologia).
Eppure la lettura non si rivela mai davvero ostica.
Molto interessanti sono i capitoli in cui si parla di zone esotiche come la Nuova Guinea e l’Australia (le differenze tra le civiltà sviluppatesi in queste due aree geografiche sono indicative di come il fattore territoriale-geografico sia importante nello sviluppo di una civiltà potenzialmente dominante).
In un lungo capitolo aggiunto in un’edizione successiva alla prima, Diamond affronta poi il caso del Giappone, la cui civiltà presenta delle anomalie rispetto al modello standard, per cercare di spiegare le quali l’Autore ha avuto bisogno di ulteriori ricerche antropologiche.

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