Anno di prima pubblicazione: 2012
Edito da: Il Saggiatore
Voto: 8,5/10
Pagg.: 354
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Quella di Emilio D'Alessandro, laziale
di Cassino, classe 1941, è una storia davvero straordinaria. Fuggito
dall'Italia nel 1960 per evitare il servizio militare, arriva in
Inghilterra, dove, dopo qualche tempo, inizia a correre come pilota
(classe Formula Ford) e a lavorare come tassista in una piccola
compagnia.
Nel 1970 gli capita di dover
trasportare un carico assai particolare: un enorme fallo bianco di
ceramica, quello che il regista Stanley Kubrick doveva utilizzare per
una delle scene più controverse del film Arancia meccanica.
Dopo qualche tempo, con grande
sorpresa, proprio Kubrick lo convoca a casa sua e gli chiede di
lavorare come autista per lui. È l'inizio di un rapporto che durerà
quasi trent'anni, con D'Alessandro che si trasforma, col passare del
tempo, da semplice autista a factotum del regista, per diventare un
vero e proprio assistente personale a tutto tondo.
Con un solo limite: a Emilio non
piacciono più di tanto i film. O meglio: quelle poche volte che è
andato al cinema ha visto soprattutto western, l'unico genere che lo
attraeva un po'.
Da quando inizia a lavorare per Kubrick
non avrà più tempo neanche per quelli.
Il Maestro americano è noto infatti
per essere uno stakanovista imperterrito e altrettanto chiede ai suoi
collaboratori (la prima cosa che domanda a Emilio è se sia iscritto
o meno ad un sindacato). Tanto che in pochissimi riescono a resistere
al suo servizio più di qualche breve periodo, al massimo qualche
anno.
Emilio resiste per quasi trent'anni,
con alti e bassi, certamente. Arriva a lavorare anche 18 ore al
giorno tutti i giorni, soprattutto nei periodi in cui è in
produzione un film. Non sa cosa siano i weekend e le vacanze.
Trascura spesso moglie e figli, che si dimostrano molto comprensivi.
Diventa, in ogni caso, un collaboratore
fidato (forse l'unico), un amico e praticamente uno di famiglia in
casa Kubrick.
Questo libro racconta la storia di
Emilio, ma anche e soprattutto la storia di un genio del cinema come
Stanley Kubrick, catturato nella sua quotidianità. Viene dunque
dipinto l'uomo più che l'intellettuale, della cui concezione registica
capiamo soltanto una cosa, per quanto significativa: quando Kubrick
si metteva dietro la macchina da presa, era per girare il film
definitivo su un determinato argomento, senza possibilità di
scendere a compromessi o di accontentarsi di qualcosa che non fosse
la perfezione.
Emilio ne capisce poco di film, per sua
stessa ammissione: i primi film di Stanley li vedrà dopo quasi 25
anni al suo servizio, approfittando di un periodo di (forzato)
congedo dal lavoro, quando sembrava che il rapporto tra i due si
fosse interrotto.
Un intervallo effimero, perché Emilio
tornerà presto a lavorare per Stanley, il quale proprio non ce la
faceva senza di lui. Tanto da confessargli che senza il suo aiuto non
se la sentiva di iniziare la produzione di Eyes Wide Shut,
ultimo film del Maestro.
Eppure le attività di Emilio sembrano
banali: accompagna attori e ospiti, mette in ordine le stanze di casa
Kubrick, dà da mangiare ai suoi animali, fa la spesa, compie piccole
riparazioni. Ma alcune di tali attività sono esemplificative del
rapporto fiduciario che c'è con il regista: quando porta in auto gli
attori e i collaboratori, Stanley gli chiede di “spiarli”, di
riferire le loro conversazioni e impressioni, trincerato dietro le
sembianze di un semplice autista; le stanze che mette in ordine sono
quelle private del regista, dove quest'ultimo non permetteva di
entrare a nessuno fuorché a Emilio, unica persona di sua fiducia.
Col passare del tempo inizierà ad
avere anche alcuni ruoli nella produzione dei film, ancorché di
manovalanza ed aiuto. Fino ad apparire come comparsa in Eyes Wide
Shut, nel ruolo dell'edicolante che consegna il giornale a Tom
Cruise.
Eppure, sono proprio quelle attività
apparentemente banali che permettevano a Kubrick di concentrarsi
sempre al cento per cento sul suo lavoro e sui suoi approfondimenti a
dir poco maniacali.
Senza di lui, come confessa più volte,
Stanley è sicuro di non farcela, sbadato e maldestro com'è (quelle
poche volte che Emilio lo lascia solo combina guai, iniziando così a
tempestarlo di telefonate).
Ma perché Emilio e non un altro?
Perché Emilio è l'unico collaboratore
così paziente da accettare i ritmi impensabili impostigli dal
regista, che sotto il profilo dell'impegno lavorativo è davvero
molto esigente, così come lo è con gli attori che dirige (i quali,
però, se la cavano con massimo qualche mese di “servizio”).
Attori anche molto celebri se ne sono
andati sbattendo la porta, non riuscendo a sopportare i metodi
kubrickiani (da ultimo Harvey Keitel in Eyes Wide Shut).
Anche i collaboratori di produzione, un
po' alla volta, se ne sono andati tutti.
Solo Emilio è rimasto. Fino
all'ultimo. Fino a quel giorno di marzo del 1999 in cui la fatica accumulata in
una vita prese il sopravvento e il regista si spense, proprio alcuni
giorni dopo esser caduto sfinito tra le braccia di Emilio, che lo
aveva portato a letto credendolo troppo stanco.
D'Alessandro lavora dunque per Kubrick
dal '71 fino al 1999, con una breve parentesi di “vacanza” verso
la metà degli anni Novanta. Ha il tempo dunque di assistere alla
produzione degli ultimi quattro film del Maestro.
Arancia meccanica era stato già prodotto ed era appena
uscito, e Kubrick era deluso dalle reazioni che erano scaturite,
soprattutto in quell'Inghilterra che era diventata la sua seconda
patria da quando aveva deciso di abbandonare la troppo caotica New
York.
Emilio arriva in tempo, però, per le
riprese di Barry Lyndon, che uscirà nel 1975 (“tre anni per tre
ore di film”, afferma incredulo... ed era soltanto l'inizio).
Dunque tocca a Shining (1980), a
Full Metal Jacket (1987) e al citato Eyes Wide Shut (che
il regista non riuscirà a terminare del tutto).
Tutti film accomunati dal fatto di
essere stati girati quasi completamente sulle isole britanniche
(Stanley aveva portato “il Vietnam sul Tamigi”).
Ma si parla anche dei film che Kubrick
sognava di fare e che, per vari motivi, non ultimo la sua scomparsa,
non riuscì a girare: il progetto di un lungometraggio “definitivo”
su Napoleone; il film sull'intelligenza artificiale, invero abbozzato
e portato sul grande schermo da Steven Spielberg.
Nel libro sono riportati vari aneddoti
provenienti dal set: scopriamo che in Full Metal Jacket “per
tagliare i capelli degli attori in modo svelto e radicale come voleva
Stanley fu usato il rasoio che Stanley mi aveva fatto comprare per
tosare il pelo ai cani”.
Ci viene illustrato il carattere degli
attori principali quando l'otturatore era a riposo: la gentilezza di
Marisa Berenson, il totale self-control di Jack Nicholson, la
simpatia di Lee Ermey alias Sergente Maggiore Hartman, che contrasta
con il rude cinismo del suo personaggio in Full Metal Jacket.
Ma nella biografia/autobiografia di
D'Alessandro, scritta con l'aiuto di Filippo Ulivieri (il padre di
ArchivioKubrick), si
parla soprattutto della vita di tutti i giorni del Maestro, da cui
tuttavia si può capire molto della sua personalità e del suo metodo
di lavoro. Stanley, ad esempio, indossava soltanto giacche e camicie
con larghi tasconi sul petto e chiedeva di fare altrettanto ai suoi
collaboratori: ciò perché dovevano essere pronte ad accogliere i
suoi taccuini, per averli sempre a portata di mano.
E ancora: “Se bisognava comprare
un asciugamano per il bagno, Stanley precisava quale doveva essere il
colore, il tipo di tessuto che voleva – e almeno quattro qualità
che non voleva –, le dimensioni esatte in pollici, più quali
negozi scegliere e quali evitare”.
“Quando avevo rifornito di carta
igienica gli appartamenti degli attori di Shining, aveva voluto
sapere che tipo di rotoli avevo scelto (normali o maxi), di quale
colore (bianca o con disegni), di che qualità (morbida o ruvida) e
come l’avevo sistemata”.
Il regista metteva il becco, con la sua
meticolosità, anche in cose apparentemente banali come il kit di
emergenza per l'automobile, che doveva contenere “una valigetta
di primo soccorso, una torcia, un accendino (...) ma anche tre rotoli
di corda da trenta metri da usare nel caso ci fossimo imbattuti per
strada in un cane ferito o abbandonato”.
Ecco emergere il Kubrick amante degli
animali, in un modo forse inaspettato soprattutto perché tale
passione sfiorava a tratti l'ossessione.
Una biografia davvero bellissima e a
larghi tratti commovente, forse proprio perché semplice e senza
alcuna pretesa intellettuale. Del resto, come dice
Filippo Ulivieri, per Emilio, Stanley “non era il genio che ha
prodotto alcuni degli indiscussi capolavori del cinema, era
semplicemente il migliore datore di lavoro possibile”.
E se, dopo aver letto questo libro, ci
verrà da rivolgerci al Maestro semplicemente con “Stanley”, come
se fosse un amico con cui parliamo tutti i giorni, ciò è proprio
merito di Emilio e del fatto che con le sue memorie lo ha fatto
diventare tale anche ai nostri occhi.
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