30 marzo 2016

Stanley Kubrick e me, di Emilio D'Alessandro

Stanley Kubrick e me. Trent'anni accanto a lui. Rivelazioni e cronache inedite dell'assistente personale di un genio, di Emilio D'Alessandro (con Filippo Ulivieri)

Anno di prima pubblicazione: 2012

Edito da: Il Saggiatore

Voto: 8,5/10

Pagg.: 354

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Quella di Emilio D'Alessandro, laziale di Cassino, classe 1941, è una storia davvero straordinaria. Fuggito dall'Italia nel 1960 per evitare il servizio militare, arriva in Inghilterra, dove, dopo qualche tempo, inizia a correre come pilota (classe Formula Ford) e a lavorare come tassista in una piccola compagnia.
Nel 1970 gli capita di dover trasportare un carico assai particolare: un enorme fallo bianco di ceramica, quello che il regista Stanley Kubrick doveva utilizzare per una delle scene più controverse del film Arancia meccanica.
Dopo qualche tempo, con grande sorpresa, proprio Kubrick lo convoca a casa sua e gli chiede di lavorare come autista per lui. È l'inizio di un rapporto che durerà quasi trent'anni, con D'Alessandro che si trasforma, col passare del tempo, da semplice autista a factotum del regista, per diventare un vero e proprio assistente personale a tutto tondo.
Con un solo limite: a Emilio non piacciono più di tanto i film. O meglio: quelle poche volte che è andato al cinema ha visto soprattutto western, l'unico genere che lo attraeva un po'.
Da quando inizia a lavorare per Kubrick non avrà più tempo neanche per quelli.
Il Maestro americano è noto infatti per essere uno stakanovista imperterrito e altrettanto chiede ai suoi collaboratori (la prima cosa che domanda a Emilio è se sia iscritto o meno ad un sindacato). Tanto che in pochissimi riescono a resistere al suo servizio più di qualche breve periodo, al massimo qualche anno.
Emilio resiste per quasi trent'anni, con alti e bassi, certamente. Arriva a lavorare anche 18 ore al giorno tutti i giorni, soprattutto nei periodi in cui è in produzione un film. Non sa cosa siano i weekend e le vacanze. Trascura spesso moglie e figli, che si dimostrano molto comprensivi.
Diventa, in ogni caso, un collaboratore fidato (forse l'unico), un amico e praticamente uno di famiglia in casa Kubrick.

Questo libro racconta la storia di Emilio, ma anche e soprattutto la storia di un genio del cinema come Stanley Kubrick, catturato nella sua quotidianità. Viene dunque dipinto l'uomo più che l'intellettuale, della cui concezione registica capiamo soltanto una cosa, per quanto significativa: quando Kubrick si metteva dietro la macchina da presa, era per girare il film definitivo su un determinato argomento, senza possibilità di scendere a compromessi o di accontentarsi di qualcosa che non fosse la perfezione.
Emilio ne capisce poco di film, per sua stessa ammissione: i primi film di Stanley li vedrà dopo quasi 25 anni al suo servizio, approfittando di un periodo di (forzato) congedo dal lavoro, quando sembrava che il rapporto tra i due si fosse interrotto.
Un intervallo effimero, perché Emilio tornerà presto a lavorare per Stanley, il quale proprio non ce la faceva senza di lui. Tanto da confessargli che senza il suo aiuto non se la sentiva di iniziare la produzione di Eyes Wide Shut, ultimo film del Maestro.
Eppure le attività di Emilio sembrano banali: accompagna attori e ospiti, mette in ordine le stanze di casa Kubrick, dà da mangiare ai suoi animali, fa la spesa, compie piccole riparazioni. Ma alcune di tali attività sono esemplificative del rapporto fiduciario che c'è con il regista: quando porta in auto gli attori e i collaboratori, Stanley gli chiede di “spiarli”, di riferire le loro conversazioni e impressioni, trincerato dietro le sembianze di un semplice autista; le stanze che mette in ordine sono quelle private del regista, dove quest'ultimo non permetteva di entrare a nessuno fuorché a Emilio, unica persona di sua fiducia.
Col passare del tempo inizierà ad avere anche alcuni ruoli nella produzione dei film, ancorché di manovalanza ed aiuto. Fino ad apparire come comparsa in Eyes Wide Shut, nel ruolo dell'edicolante che consegna il giornale a Tom Cruise.
Eppure, sono proprio quelle attività apparentemente banali che permettevano a Kubrick di concentrarsi sempre al cento per cento sul suo lavoro e sui suoi approfondimenti a dir poco maniacali.
Senza di lui, come confessa più volte, Stanley è sicuro di non farcela, sbadato e maldestro com'è (quelle poche volte che Emilio lo lascia solo combina guai, iniziando così a tempestarlo di telefonate).

Ma perché Emilio e non un altro?
Perché Emilio è l'unico collaboratore così paziente da accettare i ritmi impensabili impostigli dal regista, che sotto il profilo dell'impegno lavorativo è davvero molto esigente, così come lo è con gli attori che dirige (i quali, però, se la cavano con massimo qualche mese di “servizio”).
Attori anche molto celebri se ne sono andati sbattendo la porta, non riuscendo a sopportare i metodi kubrickiani (da ultimo Harvey Keitel in Eyes Wide Shut).
Anche i collaboratori di produzione, un po' alla volta, se ne sono andati tutti.
Solo Emilio è rimasto. Fino all'ultimo. Fino a quel giorno di marzo del 1999 in cui la fatica accumulata in una vita prese il sopravvento e il regista si spense, proprio alcuni giorni dopo esser caduto sfinito tra le braccia di Emilio, che lo aveva portato a letto credendolo troppo stanco.

D'Alessandro lavora dunque per Kubrick dal '71 fino al 1999, con una breve parentesi di “vacanza” verso la metà degli anni Novanta. Ha il tempo dunque di assistere alla produzione degli ultimi quattro film del Maestro.
Arancia meccanica era stato già prodotto ed era appena uscito, e Kubrick era deluso dalle reazioni che erano scaturite, soprattutto in quell'Inghilterra che era diventata la sua seconda patria da quando aveva deciso di abbandonare la troppo caotica New York.
Emilio arriva in tempo, però, per le riprese di Barry Lyndon, che uscirà nel 1975 (“tre anni per tre ore di film”, afferma incredulo... ed era soltanto l'inizio).
Dunque tocca a Shining (1980), a Full Metal Jacket (1987) e al citato Eyes Wide Shut (che il regista non riuscirà a terminare del tutto).
Tutti film accomunati dal fatto di essere stati girati quasi completamente sulle isole britanniche (Stanley aveva portato “il Vietnam sul Tamigi”).
Ma si parla anche dei film che Kubrick sognava di fare e che, per vari motivi, non ultimo la sua scomparsa, non riuscì a girare: il progetto di un lungometraggio “definitivo” su Napoleone; il film sull'intelligenza artificiale, invero abbozzato e portato sul grande schermo da Steven Spielberg.

Nel libro sono riportati vari aneddoti provenienti dal set: scopriamo che in Full Metal Jacket per tagliare i capelli degli attori in modo svelto e radicale come voleva Stanley fu usato il rasoio che Stanley mi aveva fatto comprare per tosare il pelo ai cani”.
Ci viene illustrato il carattere degli attori principali quando l'otturatore era a riposo: la gentilezza di Marisa Berenson, il totale self-control di Jack Nicholson, la simpatia di Lee Ermey alias Sergente Maggiore Hartman, che contrasta con il rude cinismo del suo personaggio in Full Metal Jacket.

Ma nella biografia/autobiografia di D'Alessandro, scritta con l'aiuto di Filippo Ulivieri (il padre di ArchivioKubrick), si parla soprattutto della vita di tutti i giorni del Maestro, da cui tuttavia si può capire molto della sua personalità e del suo metodo di lavoro. Stanley, ad esempio, indossava soltanto giacche e camicie con larghi tasconi sul petto e chiedeva di fare altrettanto ai suoi collaboratori: ciò perché dovevano essere pronte ad accogliere i suoi taccuini, per averli sempre a portata di mano.
E ancora: “Se bisognava comprare un asciugamano per il bagno, Stanley precisava quale doveva essere il colore, il tipo di tessuto che voleva – e almeno quattro qualità che non voleva –, le dimensioni esatte in pollici, più quali negozi scegliere e quali evitare”.
Quando avevo rifornito di carta igienica gli appartamenti degli attori di Shining, aveva voluto sapere che tipo di rotoli avevo scelto (normali o maxi), di quale colore (bianca o con disegni), di che qualità (morbida o ruvida) e come l’avevo sistemata”.
Il regista metteva il becco, con la sua meticolosità, anche in cose apparentemente banali come il kit di emergenza per l'automobile, che doveva contenere “una valigetta di primo soccorso, una torcia, un accendino (...) ma anche tre rotoli di corda da trenta metri da usare nel caso ci fossimo imbattuti per strada in un cane ferito o abbandonato”.
Ecco emergere il Kubrick amante degli animali, in un modo forse inaspettato soprattutto perché tale passione sfiorava a tratti l'ossessione.

Una biografia davvero bellissima e a larghi tratti commovente, forse proprio perché semplice e senza alcuna pretesa intellettuale. Del resto, come dice Filippo Ulivieri, per Emilio, Stanley “non era il genio che ha prodotto alcuni degli indiscussi capolavori del cinema, era semplicemente il migliore datore di lavoro possibile”.
E se, dopo aver letto questo libro, ci verrà da rivolgerci al Maestro semplicemente con “Stanley”, come se fosse un amico con cui parliamo tutti i giorni, ciò è proprio merito di Emilio e del fatto che con le sue memorie lo ha fatto diventare tale anche ai nostri occhi.

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