Armonie contro il giorno. Il cinema di Béla Tarr, di Marco Grosoli
Anno di prima pubblicazione: 2015
Edito da: Bèbert
Voto: 8/10
Pagg.: 265
___
Armonie contro il
giorno è il primo libro monografico italiano sull’ungherese Béla Tarr, regista
di nicchia ma ben conosciuto dai cinefili che hanno trovato nelle sue opere uno
stile del tutto peculiare (pur con un’eco tarkovskijana).
Scritto dal critico e studioso Marco Grosoli, che svolge un
post-dottorato in Film Studies
all’Università del Kent, è uscito per i tipi della Bèbert, una giovane casa
editrice indipendente bolognese che con questo titolo ha inaugurato la collana
dedicata al cinema 24 fps (24
fotogrammi per secondo).
Il libro parte da una breve introduzione biografica, prima di
affrontare l’analisi dei singoli film del regista di Pécs.
I cenni sulla vita e sulla (auto)formazione di Tarr sono
fondamentali per capire le sue opere: l’impegno sociale che lo ha
contraddistinto fin da giovane; l’attenzione alla questione operaia; il fatto
di essere sostanzialmente un autodidatta, prima ostracizzato dalle scuole di
cinema (considerata la sua posizione critica nei confronti delle autorità), poi
ammesso quando l’esplosione del suo talento non consentiva di continuare a far
finta di niente (ma quando ormai le sue idee erano già scolpite e difficilmente
intaccabili da una formazione tradizionale).
L’autore analizza poi i singoli lungometraggi, mentre invece
tralascia i corti (giovanili e non).
O, per meglio dire, tra i corti ne prende in considerazione
soltanto uno, quel Prologo che fa
parte del film collettivo Visions of
Europe, nato da un’idea di Lars Von Trier e costituito da 25 episodi, uno
per ogni Paese dell’Unione Europea.
E proprio quel Prologo
a fare da prologo all’analisi dello stile di Tarr, costituendone un esempio
piuttosto significativo (è stato girato nel 2004, nel pieno della maturità
stilistica del regista di Pécs): una lunga carrellata laterale che mostra una
folla di poveracci in attesa di ricevere un pasto caldo; la macchina da presa
che si muove quando le persone sono ferme e che si stoppa quando queste
cominciano a muoversi. In quei soli cinque minuti circa di pellicola c’è molto
dello stile Tarr, anche se per comprenderlo in toto occorre necessariamente
partire dai primi lungometraggi sfornati dal regista a cavallo tra la fine
degli anni Settanta e i primi anni Ottanta.
I primi tre film (Nido
familiare, Lo straniero, Rapporti prefabbricati) sembrano, ad una
prima visione, molti diversi dallo stile del Tarr maturo, quello che lo ha reso
celebre tra i cultori del cinema d’autore contemporaneo. È un iperrealismo con
– soprattutto nel primo – un’attenzione ai temi sociali e a quelli dei rapporti
interpersonali.
Le prime avvisaglie di una svolta tecnico-stilistica
arrivano con Macbeth, film del 1982
prodotto per la tv ungherese e tratto da Shakespeare, nonché, soprattutto, con Almanacco d’autunno. Se il primo resta
impresso principalmente per il fatto di essere composto da due soli piani
sequenza (il primo di circa cinque minuti, il secondo – lunghissimo – di oltre
un’ora), è con Öszi almanach (del
1985) che Tarr dà una netta connotazione intimista e virtuosistica alla sua
idea di cinema, anche se non mancano alcune differenze fondamentali rispetto a
quello che sarà il Tarr dei capolavori: in primis il fatto che sia stato girato
a colori, cosa che da Perdizione in
avanti non avverrà più, siccome il regista utilizzerà soltanto più il bianco e
nero (tranne che nel corto Viaggio nella
pianura ungherese). Almanacco
d’autunno è anche importante per l’avvio del sodalizio con il musicista
Mihály Víg, che curerà le colonne sonore dei film di Tarr fino a Il cavallo di Torino.
Il 1988 è l’anno di Perdizione,
il film con cui si consuma definitivamente la svolta stilistica del regista
ungherese. Da Kárhozat il cinema di
Béla Tarr sarà unico e inconfondibile: lunghi piani sequenza, fotografia in
bianco e nero, tempi dilatatissimi, dialoghi ridotti all’osso, una musica
estraniante, un senso di inquietudine apocalittica che aleggia su tutti i film.
Con Perdizione
inizia un’altra importante collaborazione, quella con lo scrittore László
Krasznahorkai, che da quel lungometraggio in avanti fornirà soggetto e
sceneggiatura di tutti i film di Tarr (eccetto L’uomo di Londra, che è tratto da Simenon e di cui Krasznahorkai
scrisse solo la sceneggiatura).
Nel 1994 esce Sátántangó,
quello che viene considerato il capolavoro di Tarr. Un film di oltre sette ore
di durata che resta un’esperienza intellettuale unica nel suo genere. Una via
crucis cinematografica capace di regalare soddisfazioni estetiche (e non solo)
davvero ineguagliabili.
Nonostante il successo (in ambienti di nicchia) di Sátántangó, Tarr fatica a trovare
finanziamenti per portare avanti la propria idea di cinema e difatti passeranno
sei anni prima dell’uscita del successivo film, Le armonie di Werckmeister, e altri sette per arrivare a L'uomo di Londra.
Se il primo fu decisamente riuscito, con il suo memorabile
simbolismo, il secondo fu invece un flop, anche tra gli aficionados. Accolto da
fischi alla presentazione al festival di Cannes, dove era in concorso, L’uomo di Londra rappresenta sicuramente
una pellicola anomala nella cinematografia tarriana: il suo (pur immutato)
stile sembra infatti fuori posto una volta modificati il contesto narrativo (come
detto, un’opera di George Simenon anziché l’ormai consueto soggetto di Krasznahorkai)
e la location (un porto nel mediterraneo al posto della malinconica puszta
ungherese).
Il cavallo di Torino,
del 2011, è l’ultimo film di Béla Tarr, che dopo di esso annuncerà il ritiro
dall’attività di regista. Una decisione dalla quale emerge una rara onestà
intellettuale, considerate le motivazioni che hanno spinto il cineasta: la
volontà di non ripetersi, una volta acquisita la consapevolezza di aver
esaurito ciò che pensava di avere da dire.
Il cavallo di Torino
resta uno dei suoi film più belli e difficili (non che gli altri non lo siano),
nonché l’unico ad aver raggiunto un prestigioso riconoscimento internazionale,
vincendo l’Orso d’argento, gran premio della giuria, al Festival internazionale
del cinema di Berlino.
Il libro di Grosoli ha il grosso pregio di non essere
pretenzioso, cosa che non era del tutto scontata visto l’oggetto della
monografia.
Fornisce molti interessanti spunti di riflessione, sia
tecnici sia contenutistici, con un’analisi precisa, né banale né eccessivamente
astrusa: forse soltanto quando parla di Sátántangó
(a cui dedica circa settanta delle 250 pagine totali) l’autore compie alcuni
voli pindarici che non è sempre facile seguire.
Interessanti sono alcuni accostamenti interdisciplinari,
come quelli tra il cinema di Tarr e alcune avanguardie artistiche, ad esempio
la pittura del russo Malevič (fondatore del Suprematismo) ed in particolare
il suo Quadrato nero.
Chiude il saggio un’appendice che raccoglie tre interviste
di Michael Guarneri allo stesso regista, a Fred Kelemen (direttore della
fotografia degli ultimi due film di Tarr) e a Mihály Víg, nonché una dettagliata
filmografia e una ricca bibliografia, ancorché composta da testi stranieri.
Nessun commento:
Posta un commento