26 febbraio 2016

Armonie contro il giorno. Il cinema di Béla Tarr, di Marco Grosoli

Armonie contro il giorno. Il cinema di Béla Tarr, di Marco Grosoli

Anno di prima pubblicazione: 2015

Edito da: Bèbert

Voto: 8/10

Pagg.: 265

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Armonie contro il giorno è il primo libro monografico italiano sull’ungherese Béla Tarr, regista di nicchia ma ben conosciuto dai cinefili che hanno trovato nelle sue opere uno stile del tutto peculiare (pur con un’eco tarkovskijana).

Scritto dal critico e studioso Marco Grosoli, che svolge un post-dottorato in Film Studies all’Università del Kent, è uscito per i tipi della Bèbert, una giovane casa editrice indipendente bolognese che con questo titolo ha inaugurato la collana dedicata al cinema 24 fps (24 fotogrammi per secondo).

Il libro parte da una breve introduzione biografica, prima di affrontare l’analisi dei singoli film del regista di Pécs.
I cenni sulla vita e sulla (auto)formazione di Tarr sono fondamentali per capire le sue opere: l’impegno sociale che lo ha contraddistinto fin da giovane; l’attenzione alla questione operaia; il fatto di essere sostanzialmente un autodidatta, prima ostracizzato dalle scuole di cinema (considerata la sua posizione critica nei confronti delle autorità), poi ammesso quando l’esplosione del suo talento non consentiva di continuare a far finta di niente (ma quando ormai le sue idee erano già scolpite e difficilmente intaccabili da una formazione tradizionale).
L’autore analizza poi i singoli lungometraggi, mentre invece tralascia i corti (giovanili e non).
O, per meglio dire, tra i corti ne prende in considerazione soltanto uno, quel Prologo che fa parte del film collettivo Visions of Europe, nato da un’idea di Lars Von Trier e costituito da 25 episodi, uno per ogni Paese dell’Unione Europea.
E proprio quel Prologo a fare da prologo all’analisi dello stile di Tarr, costituendone un esempio piuttosto significativo (è stato girato nel 2004, nel pieno della maturità stilistica del regista di Pécs): una lunga carrellata laterale che mostra una folla di poveracci in attesa di ricevere un pasto caldo; la macchina da presa che si muove quando le persone sono ferme e che si stoppa quando queste cominciano a muoversi. In quei soli cinque minuti circa di pellicola c’è molto dello stile Tarr, anche se per comprenderlo in toto occorre necessariamente partire dai primi lungometraggi sfornati dal regista a cavallo tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta.
I primi tre film (Nido familiare, Lo straniero, Rapporti prefabbricati) sembrano, ad una prima visione, molti diversi dallo stile del Tarr maturo, quello che lo ha reso celebre tra i cultori del cinema d’autore contemporaneo. È un iperrealismo con – soprattutto nel primo – un’attenzione ai temi sociali e a quelli dei rapporti interpersonali.
Le prime avvisaglie di una svolta tecnico-stilistica arrivano con Macbeth, film del 1982 prodotto per la tv ungherese e tratto da Shakespeare, nonché, soprattutto, con Almanacco d’autunno. Se il primo resta impresso principalmente per il fatto di essere composto da due soli piani sequenza (il primo di circa cinque minuti, il secondo – lunghissimo – di oltre un’ora), è con Öszi almanach (del 1985) che Tarr dà una netta connotazione intimista e virtuosistica alla sua idea di cinema, anche se non mancano alcune differenze fondamentali rispetto a quello che sarà il Tarr dei capolavori: in primis il fatto che sia stato girato a colori, cosa che da Perdizione in avanti non avverrà più, siccome il regista utilizzerà soltanto più il bianco e nero (tranne che nel corto Viaggio nella pianura ungherese). Almanacco d’autunno è anche importante per l’avvio del sodalizio con il musicista Mihály Víg, che curerà le colonne sonore dei film di Tarr fino a Il cavallo di Torino.
Il 1988 è l’anno di Perdizione, il film con cui si consuma definitivamente la svolta stilistica del regista ungherese. Da Kárhozat il cinema di Béla Tarr sarà unico e inconfondibile: lunghi piani sequenza, fotografia in bianco e nero, tempi dilatatissimi, dialoghi ridotti all’osso, una musica estraniante, un senso di inquietudine apocalittica che aleggia su tutti i film.
Con Perdizione inizia un’altra importante collaborazione, quella con lo scrittore László Krasznahorkai, che da quel lungometraggio in avanti fornirà soggetto e sceneggiatura di tutti i film di Tarr (eccetto L’uomo di Londra, che è tratto da Simenon e di cui Krasznahorkai scrisse solo la sceneggiatura).
Nel 1994 esce Sátántangó, quello che viene considerato il capolavoro di Tarr. Un film di oltre sette ore di durata che resta un’esperienza intellettuale unica nel suo genere. Una via crucis cinematografica capace di regalare soddisfazioni estetiche (e non solo) davvero ineguagliabili.
Nonostante il successo (in ambienti di nicchia) di Sátántangó, Tarr fatica a trovare finanziamenti per portare avanti la propria idea di cinema e difatti passeranno sei anni prima dell’uscita del successivo film, Le armonie di Werckmeister, e altri sette per arrivare a L'uomo di Londra.
Se il primo fu decisamente riuscito, con il suo memorabile simbolismo, il secondo fu invece un flop, anche tra gli aficionados. Accolto da fischi alla presentazione al festival di Cannes, dove era in concorso, L’uomo di Londra rappresenta sicuramente una pellicola anomala nella cinematografia tarriana: il suo (pur immutato) stile sembra infatti fuori posto una volta modificati il contesto narrativo (come detto, un’opera di George Simenon anziché l’ormai consueto soggetto di Krasznahorkai) e la location (un porto nel mediterraneo al posto della malinconica puszta ungherese).
Il cavallo di Torino, del 2011, è l’ultimo film di Béla Tarr, che dopo di esso annuncerà il ritiro dall’attività di regista. Una decisione dalla quale emerge una rara onestà intellettuale, considerate le motivazioni che hanno spinto il cineasta: la volontà di non ripetersi, una volta acquisita la consapevolezza di aver esaurito ciò che pensava di avere da dire.
Il cavallo di Torino resta uno dei suoi film più belli e difficili (non che gli altri non lo siano), nonché l’unico ad aver raggiunto un prestigioso riconoscimento internazionale, vincendo l’Orso d’argento, gran premio della giuria, al Festival internazionale del cinema di Berlino.

Il libro di Grosoli ha il grosso pregio di non essere pretenzioso, cosa che non era del tutto scontata visto l’oggetto della monografia.
Fornisce molti interessanti spunti di riflessione, sia tecnici sia contenutistici, con un’analisi precisa, né banale né eccessivamente astrusa: forse soltanto quando parla di Sátántangó (a cui dedica circa settanta delle 250 pagine totali) l’autore compie alcuni voli pindarici che non è sempre facile seguire.
Interessanti sono alcuni accostamenti interdisciplinari, come quelli tra il cinema di Tarr e alcune avanguardie artistiche, ad esempio la pittura del russo Malevič (fondatore del Suprematismo) ed in particolare il suo Quadrato nero.
Chiude il saggio un’appendice che raccoglie tre interviste di Michael Guarneri allo stesso regista, a Fred Kelemen (direttore della fotografia degli ultimi due film di Tarr) e a Mihály Víg, nonché una dettagliata filmografia e una ricca bibliografia, ancorché composta da testi stranieri.

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