Anno di prima pubblicazione: 2015
Edito da: Rizzoli
Voto: 7/10
Pagg.: 318
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Dopo aver esordito nella narrativa con
tre gialli storici, due dei quali con protagonista il Sommo Poeta,
con La selva oscura Francesco Fioretti, studioso di Dante, si
prefigge il non facile compito di trasporre in un linguaggio in prosa
contemporanea l'inferno della Divina Commedia.
Come lo definisce lo stesso autore, il
libro è “Un remake dell’Inferno, un rifacimento in prosa, in
forma di romanzo, sulla scorta di esperimenti più o meno simili di
riscrittura di capolavori del passato. È il viaggio di Dante narrato
da un altro, da un uomo di oggi, ma spesso, finché possibile, con le
parole di Dante”.
L'obiettivo non si può dire che non
sia riuscito.
Che poi buona parte della bellezza del
poema dantesco si perda con una pur discreta versione in prosa
moderna è altro discorso.
Non manca, in ogni caso, qualche
passaggio davvero brillante:
“Era giunto al fondo
dell’universo, al pozzo desolato su cui converge la gravità del
cosmo, il buco nero al centro della galassia, dove tutto l’amore si
spegne: il centro della gravità morale, il peso insostenibile di
tutta la materia del mondo, la massa volumica del male assoluto. A
descriverlo occorrerebbe un vocabolario adatto, di parole dai suoni
stridenti, una lingua di dissonanze, di rime aspre e chiocce, di
suoni ispidi, di strascichi consonantici che producano effetti di
lacerazione interiore al solo pronunciarli”.
Il libro manca, tuttavia, della
complessità e dell'armonia dell'architettura dantesca, pur
guadagnando, per quanto ovvio, in semplicità di lettura.
Qualche verso originario, soprattutto
tra quelli più celebri, viene comunque mantenuto.
È forse un libro che può aiutare
qualcuno ad avvicinarsi alla Commedia in versi - l'unica che valga
davvero la pena di essere letta - e già questo può essere un fine
encomiabile.
Resta qualche perplessità per alcuni
riferimenti (invero pochi) alla modernità (i dittatori del
Novecento, che vengono idealmente posti nell'inferno insieme ai
peccatori danteschi, e addirittura un riferimento al terrorismo che
ha connotato i primi anni del nuovo millennio).
Ma il vero pezzo forte di questo libro
è l'interessantissimo saggio proposto in appendice: Visioni e
veleni. Dante “psichedelico” e i parassiti del grano.
L'autore, che compie l'analisi insieme
ad un amico medico psichiatra, indaga sulla probabile malattia
neurologica che, come sostenuto da molti addetti ai lavori, con tutta
probabilità affliggeva il Sommo Poeta.
La tesi di Fioretti è che Dante
soffrisse di “intossicazioni da segale cornuta, ovvero di
estemporanee manifestazioni di ergotismo, una malattia molto diffusa
nell’antichità e fino a fine Ottocento. Una malattia dei cereali,
intaccati da un fungo con proprietà allucinogene”, lo stesso
da cui oggi si ricava l'LSD.
Tale sostanza “poteva favorire
brevi stati di trance o persino fulminei attacchi epilettici come
quelli che il poeta descrive nella Vita nova”.
In tale opera, infatti, così come
nella stessa Divina Commedia (sebbene in misura minore) Dante
descrive episodi patologici di verosimile natura neurologica, su cui
si sono concentrati gli esperti, arrivando a formulare varie ipotesi:
epilessia, narcolessia o addirittura l'utilizzo di sostanze
stupefacenti. Tale ultima tesi, secondo l'autore, è in fin dei conti
quella che si avvicina maggiormente, sebbene Dante avesse assunto
sostanze di tal specie in via del tutto involontaria, per l'appunto
tramite questi cereali contaminati.
Vengono dunque analizzate tutte le
ipotesi patologiche: la tesi della narcolessia, che trova appigli
proprio nella Commedia (il doppio passaggio in cui il Poeta afferma
di cadere “come l’uom cui sonno piglia” e, in altro
punto, “come corpo morto cade”). Ma tali passaggi sembrano
dimostrare l'estrema stanchezza del Poeta, vinto dalla fatica dopo un
lunghissimo periodo di insonnia, piuttosto che una condizione
patologica.
Quella dell'epilessia è invece una
tesi che risale addirittura a Cesare Lombroso. Eppure, l'unico
episodio che fa pensare ad una crisi epilettica è contenuto in un
passo della Vita nova, in cui Dante racconta la sua esperienza
in modo estremamente dettagliato. Ma resta un episodio singolo, il
che sarebbe incompatibile con la patologia in questione.
Resta dunque la tesi
dell'intossicazione da cereali contaminati, un fatto molto comune ai
tempi di Dante e fino a tutto l'Ottocento: “crisi come quella
che potrebbe essere capitata a lui erano certamente molto frequenti”.
Fioretti nega dunque che il Poeta
potesse essere affetto da una condizione patologica permanente,
proponendo invece che sia stato colto da “uno, o al massimo due
episodi che l’intossicazione da claviceps purpurea potrebbe
spiegare molto bene”.
L'autore racconta, in un passaggio
molto interessante, come i mistici dell'epoca - che per mortificare
il proprio corpo si sottoponevano a una dieta pane e acqua - potevano
essere affetti con maggiore probabilità da tale malattia, che
generava le visioni a cui essi erano spesso soggetti. Così come una
dieta ricca di cereali era quella del carcerato, che potrebbe dunque
aver portato (insieme alle torture subite) ai deliri cui gli
inquisitori si appellavano per accusarli di stregoneria.
Fatto sta che tra queste crisi che ebbe
il Poeta, vi è quella cui si fa risalire il suo innamoramento nei
confronti di Beatrice, un sentimento ritenuto ultraterreno da Dante
proprio perché sbocciato in un momento di crisi patologica: “per
lui l’avvenimento non è che un segno, e lo sarà fino alla
Commedia, dell’origine soprannaturale del suo amore per Beatrice”.
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