22 aprile 2016

La selva oscura, di Francesco Fioretti

La selva oscura: Il grande romanzo dell'inferno, di Francesco Fioretti

Anno di prima pubblicazione: 2015

Edito da: Rizzoli

Voto: 7/10

Pagg.: 318

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Dopo aver esordito nella narrativa con tre gialli storici, due dei quali con protagonista il Sommo Poeta, con La selva oscura Francesco Fioretti, studioso di Dante, si prefigge il non facile compito di trasporre in un linguaggio in prosa contemporanea l'inferno della Divina Commedia.
Come lo definisce lo stesso autore, il libro è “Un remake dell’Inferno, un rifacimento in prosa, in forma di romanzo, sulla scorta di esperimenti più o meno simili di riscrittura di capolavori del passato. È il viaggio di Dante narrato da un altro, da un uomo di oggi, ma spesso, finché possibile, con le parole di Dante”.
L'obiettivo non si può dire che non sia riuscito.
Che poi buona parte della bellezza del poema dantesco si perda con una pur discreta versione in prosa moderna è altro discorso.
Non manca, in ogni caso, qualche passaggio davvero brillante:
Era giunto al fondo dell’universo, al pozzo desolato su cui converge la gravità del cosmo, il buco nero al centro della galassia, dove tutto l’amore si spegne: il centro della gravità morale, il peso insostenibile di tutta la materia del mondo, la massa volumica del male assoluto. A descriverlo occorrerebbe un vocabolario adatto, di parole dai suoni stridenti, una lingua di dissonanze, di rime aspre e chiocce, di suoni ispidi, di strascichi consonantici che producano effetti di lacerazione interiore al solo pronunciarli”.
Il libro manca, tuttavia, della complessità e dell'armonia dell'architettura dantesca, pur guadagnando, per quanto ovvio, in semplicità di lettura.
Qualche verso originario, soprattutto tra quelli più celebri, viene comunque mantenuto.
È forse un libro che può aiutare qualcuno ad avvicinarsi alla Commedia in versi - l'unica che valga davvero la pena di essere letta - e già questo può essere un fine encomiabile.
Resta qualche perplessità per alcuni riferimenti (invero pochi) alla modernità (i dittatori del Novecento, che vengono idealmente posti nell'inferno insieme ai peccatori danteschi, e addirittura un riferimento al terrorismo che ha connotato i primi anni del nuovo millennio).

Ma il vero pezzo forte di questo libro è l'interessantissimo saggio proposto in appendice: Visioni e veleni. Dante “psichedelico” e i parassiti del grano.
L'autore, che compie l'analisi insieme ad un amico medico psichiatra, indaga sulla probabile malattia neurologica che, come sostenuto da molti addetti ai lavori, con tutta probabilità affliggeva il Sommo Poeta.
La tesi di Fioretti è che Dante soffrisse di “intossicazioni da segale cornuta, ovvero di estemporanee manifestazioni di ergotismo, una malattia molto diffusa nell’antichità e fino a fine Ottocento. Una malattia dei cereali, intaccati da un fungo con proprietà allucinogene”, lo stesso da cui oggi si ricava l'LSD.
Tale sostanza “poteva favorire brevi stati di trance o persino fulminei attacchi epilettici come quelli che il poeta descrive nella Vita nova”.
In tale opera, infatti, così come nella stessa Divina Commedia (sebbene in misura minore) Dante descrive episodi patologici di verosimile natura neurologica, su cui si sono concentrati gli esperti, arrivando a formulare varie ipotesi: epilessia, narcolessia o addirittura l'utilizzo di sostanze stupefacenti. Tale ultima tesi, secondo l'autore, è in fin dei conti quella che si avvicina maggiormente, sebbene Dante avesse assunto sostanze di tal specie in via del tutto involontaria, per l'appunto tramite questi cereali contaminati.
Vengono dunque analizzate tutte le ipotesi patologiche: la tesi della narcolessia, che trova appigli proprio nella Commedia (il doppio passaggio in cui il Poeta afferma di cadere “come l’uom cui sonno piglia” e, in altro punto, “come corpo morto cade”). Ma tali passaggi sembrano dimostrare l'estrema stanchezza del Poeta, vinto dalla fatica dopo un lunghissimo periodo di insonnia, piuttosto che una condizione patologica.
Quella dell'epilessia è invece una tesi che risale addirittura a Cesare Lombroso. Eppure, l'unico episodio che fa pensare ad una crisi epilettica è contenuto in un passo della Vita nova, in cui Dante racconta la sua esperienza in modo estremamente dettagliato. Ma resta un episodio singolo, il che sarebbe incompatibile con la patologia in questione.
Resta dunque la tesi dell'intossicazione da cereali contaminati, un fatto molto comune ai tempi di Dante e fino a tutto l'Ottocento: “crisi come quella che potrebbe essere capitata a lui erano certamente molto frequenti”.
Fioretti nega dunque che il Poeta potesse essere affetto da una condizione patologica permanente, proponendo invece che sia stato colto da “uno, o al massimo due episodi che l’intossicazione da claviceps purpurea potrebbe spiegare molto bene”.
L'autore racconta, in un passaggio molto interessante, come i mistici dell'epoca - che per mortificare il proprio corpo si sottoponevano a una dieta pane e acqua - potevano essere affetti con maggiore probabilità da tale malattia, che generava le visioni a cui essi erano spesso soggetti. Così come una dieta ricca di cereali era quella del carcerato, che potrebbe dunque aver portato (insieme alle torture subite) ai deliri cui gli inquisitori si appellavano per accusarli di stregoneria.
Fatto sta che tra queste crisi che ebbe il Poeta, vi è quella cui si fa risalire il suo innamoramento nei confronti di Beatrice, un sentimento ritenuto ultraterreno da Dante proprio perché sbocciato in un momento di crisi patologica: “per lui l’avvenimento non è che un segno, e lo sarà fino alla Commedia, dell’origine soprannaturale del suo amore per Beatrice”.

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