4 maggio 2016

L'età degli imperi, di Eric J. Hobsbawm

L'età degli imperi. 1875-1914 (The Age of Empire: 1875–1914), di Eric John Ernest Hobsbawm

Anno di prima pubblicazione: 1987

Edito da: Laterza

Voto: 8,5/10

Pagg.: 456

Traduttore: Franco Salvatorelli

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Lo storico britannico Eric Hobsbawm è famoso per aver coniato due definizioni divenute di uso comune nella storiografia e spesso richiamate anche dai giornalisti: quella di Secolo breve, con cui l'Autore definì il Novecento, e quella di Lungo XIX secolo (o Lungo Ottocento), con cui invece richiamava il periodo che va dalla Rivoluzione americana del 1776 (o comunque dalla Rivoluzione francese del 1789) all'agosto del 1914, e precisamente allo scoppio della prima guerra mondiale.
Tali due concetti sono al centro di quattro opere di carattere storico scritte da Hobsbawm: una è quella che prende proprio il nome dalla prima definizione, Il secolo breve. Le altre tre sono invece concentrate sul Lungo Ottocento e sono:
Le Rivoluzioni Borghesi. 1789-1848 (The Age of Revolution)
Il Trionfo della Borghesia. 1848-1875 (The Age of Capital)
e per l'appunto questo
L'Età degli Imperi. 1875-1914 (The Age of Empire).

La data scelta dall'Autore per chiudere un'epoca quale il Lungo Ottocento e aprire il Secolo breve è assai importante perché, come spiega Hobsbawm, “l'agosto 1914 è una delle più incontestabili cesure naturali della storia”.
Con lo scoppio della prima guerra mondiale, infatti, “La rivoluzione il cui ricordo domina il mondo dalla Grande Guerra in qua, non è più la Rivoluzione francese del 1789. La cultura da cui il mondo è permeato non è più la cultura borghese quale era intesa prima del 1914. (…) Nel bene e nel male, dal 1914 il secolo della borghesia appartiene alla storia”.

Il libro prende le mosse dai centenari delle rivoluzioni americana e francese (1876 e 1889) per rilevare gli stravolgimenti accaduti proprio in quegli ultimi cento anni: la rivoluzione demografica, quella urbana e quella industriale, che hanno portato gli anni '80 dell'Ottocento a essere così diversi dagli stessi anni del Settecento; molto più di quanto questi ultimi lo fossero stati rispetto ai secoli precedenti

Da un punto di vista economico il periodo 1875-1914 può essere diviso in due parti: la prima corrisponde alla Grande Depressione economica degli ultimi decenni dell'Ottocento, una crisi che tocca in particolar modo l'agricoltura, portando a fenomeni migratori diffusi che cercano di porre un argine sociale al problema; la seconda coincide con la ripresa e lo sviluppo economico che va da fine Ottocento fino al 1914, nel periodo tradizionalmente definito Belle Époque. Una crescita che frustra le speranze dei socialisti nel profetizzato crollo del capitalismo.

Il quarantennio in questione viene definito Età degli imperi perché in questi anni si assiste allo sviluppo e all'apogeo del colonialismo, che diventa imperialismo nella sua accezione tradizionalmente negativa. Ma è anche – più in senso letterale – l'era in cui si conta il maggior numero di imperatori: in Europa, soprattutto, ma anche in Asia (Giappone) e Africa (Etiopia e Marocco).
L'approccio colonialista-imperialista delle super-potenze è dovuto, in primis, a necessità economiche e politiche (il prestigio internazionale), ma anche a ragioni interne, come giustamente sostiene chi afferma che in mancanza di colonialismo, in tali Paesi, la guerra civile sarebbe stata inevitabile.

Tra fine Ottocento e inizio Novecento si assiste ovunque all'estensione del suffragio a causa principalmente delle agitazioni socialiste e delle ripercussioni dovute alla Rivoluzione russa del 1905: “La democrazia politica non poteva più essere rinviata. D'ora in avanti, il problema era come manipolarla”.
Ecco dunque che la democrazia porta con sé una ventata di ipocrisia, a causa della necessità della classe politica di rivolgersi ad un elettorato che fino a qualche tempo prima disprezzava, che riteneva inferiore e a cui ora invece deve puntare al consenso.
Sono gli anni dell'esponenziale crescita del socialismo a cui la maggior parte dei governi risponde, dopo l'iniziale tentativo di contrastarlo su tutti i fronti, con pressoché indispensabili concessioni per tenere a bada le frange più estreme.
Un socialismo che all'inizio del quarantennio in esame guardava alla repubblica democratica come un passaggio importante e prodromico alla vittoria proletaria (così Marx, che muore nel 1883), per poi giungere, invece, alla totale disapprovazione di essa perché ritenuta compromessa con il capitalismo, che la sfrutta come un guscio per i suoi fini (Lenin, che si espresse così nel 1917).
La crescita del socialismo è ovviamente dovuta all'esponenziale crescita di una classe operaia urbana che con l'andare del tempo acquista consapevolezza di sé e della propria importanza, nonché del proprio sfruttamento.
Un qualcosa di diametralmente opposto a quanto stava accadendo oltreoceano: “Se il sogno americano era individualistico, quello dell'operaio europeo era generalmente collettivo”.
Con la ripresa economica di fine Ottocento, tuttavia, tramontata la certezza di un imminente crollo del capitalismo che la Grande Depressione aveva ingenerato, molti partiti socialisti si trovano inevitabilmente ad abbracciare posizioni più moderate, per ottenere conquiste nell'immediato. Solo nei paesi del Europa meridionale e in Russia rimane forte il movimento anarchico e la pulsione verso la rivoluzione.
Nasce contemporaneamente la necessità di allargare la base, se davvero la socialdemocrazia vuole puntare ad essere un partito maggioritario. Ecco dunque il tentativo di rivolgersi all'ampia classe dei lavoratori della terra, con risultati tuttavia non del tutto soddisfacenti e forse anche controproducenti: un'operazione del genere non era infatti per nulla semplice per un movimento che si identificava nella stessa classe operaia e che uscendo da tale confine sociale rischiava di snaturarsi.

Altro termine chiave del periodo in esame è nazionalismo, che si lega ai precedenti colonialismo/imperialismo e socialismo per essere un prerequisito del primo e l'antitesi politica del secondo (siccome il nazionalismo era spesso collocato ideologicamente a destra: “la bandiera del patriottismo diventò a tal punto un bene di proprietà della destra, che la sinistra si trovò imbarazzata a impugnarla, anche là dove, come in Francia, il tricolore patriottico si identificava strettamente con la rivoluzione e la causa popolare”).
Al nazionalismo/patriottismo puntavano le grandi potenze per arginare il socialismo, forgiandolo principalmente nelle scuole e con l'esercito.
Fino al trionfo della televisione, non ci fu mezzo di propaganda laico paragonabile all'aula scolastica”.
All'estero, invece, un ruolo fondamentale nella creazione di un'identità nazionale era rivestito dalla solidarietà tra migranti (all'arrivo negli Stati Uniti, quelli che si erano sempre definiti napoletani piuttosto che siciliani venivano tutti chiamati italiani).
Il nazionalismo si accompagnava alla xenofobia e in particolare all'antisemitismo, e sfociava, nelle sue espressioni più intransigenti, nello sciovinismo.
Un nazionalismo siffatto si prestava assai bene a esprimere i malumori collettivi di gente che non sapeva spiegare con chiarezza i propri motivi di malcontento. Era tutta colpa degli stranieri”.

Se è vero che l'Ottocento è stato il secolo della borghesia, è anche vero che l'apice dei frutti della ricchezza borghese furono colti soltanto tra la fine del XIX secolo e l'inizio del Novecento, in quel periodo che proprio per questo veniva (e viene) chiamato (non senza un tocco di nostalgia da parte di chi l'aveva vissuto) Belle Époque.
Ma era quello stesso periodo in cui andavano formandosi le minacce allo stile di vita borghese: il socialismo e il timore per le rivoluzioni proletarie in primis.
In ogni caso, la ricchezza borghese sempre crescente porta ad una ridefinizione delle classi sociali: “anche vecchie e radicate monarchie ammettevano che il denaro era adesso un criterio di nobiltà altrettanto valido del sangue blu”.
Ma la stessa classe borghese era estremamente variegata: si andava dai piccoli borghesi che guadagnavano soltanto poco più di un operaio qualificato (ma che spendevano molto di più per mantenere la dignità di classe) alla media borghesia, fino ai ricchi e ai super-ricchi, i cosiddetti plutocrati, che avevano un'influenza sulla vita politico-sociale del Paese (i vari Rockefeller, J.P. Morgan, Krupp).
I segni distintivi borghesi si ravvisavano nella frequentazione di scuole prestigiose, nella pratica di determinati sport, nella possibilità di permettersi lunghe vacanze e automobili (in Europa, soltanto per i più agiati). La condizione minima per essere considerati borghesi era quella di avere personale di servizio.
In seno a queste classi si sviluppavano gli artisti dell'epoca: principalmente letterati (che spesso vivevano di rendita) e musicisti.

L'Autore dedica un lungo capitolo al ruolo della donna in quegli anni. Essa guadagnò una progressiva (ma ancora modesta) emancipazione nelle classi della borghesia medio-alta e dell'aristocrazia. Una "donna nuova" che si manifestava in alcune grandi figure come Rosa Luxemburg e Marie Curie, rispettivamente attive nel campo politico e scientifico.

Vi è poi un capitolo sull'evoluzione dell'arte nel quarantennio.
Gli artisti erano profondamente influenzati dalla situazione socio-politica e vennero anch'essi frustrati dalla revisione delle attese: “Dagli anni intorno al 1895, quando fu chiaro che la grande avanzata del socialismo non portava alla rivoluzione, bensì a movimenti organizzati di massa impegnati in attività ricche di speranza, ma di ordinaria amministrazione, artisti e esteti ne trassero minore ispirazione”.
Dal punto di vista delle arti, in ogni caso, è sicuramente l'invenzione del cinema a rappresentare la novità più dirompente.
Il cinema rappresenta una nuova concezione dell'arte, trattandosi, come lo definisce l'Autore, di uno "spettacolo di massa industrializzato" che non poteva che essere figlio di quell'epoca.

Ma la vera rivoluzione nel senso più pregnante del termine, ossia quello di stravolgimento dello status quo, avvenne in un altro campo del sapere umano, quello delle scienze e in particolare nella fisica. Tra fine Ottocento e il primo decennio del Novecento le stesse fondamenta della concezione umana della natura, fino ad allora ritenute una certezza inattaccabile, vennero inesorabilmente scosse.
Lo scontro tra scienziati di vecchia generazione impegnati a difendere le (ormai) antiche concezioni e quelli della nuova generazione dediti a sconvolgerle fu lungo e controverso: “non furono gli intelletti raffinati quelli disposti ad ammettere che il re era nudo: persero tempo a inventare teorie per spiegare perché i suoi vestiti erano insieme splendidi e invisibili”.
La commistione tra scienza e politica, tuttavia, non fu prerogativa della fisica (almeno in quegli anni), bensì della biologia: andavano formandosi in quel periodo le due discipline della eugenica (prima) e della genetica (poi), che avranno importanza fondamentale (e deleteria) nel corso del Novecento.
Per quanto riguarda le scienze sociali, invece, nel quarantennio in esame sorsero nuove discipline quali la psicanalisi di Freud e la sociologia, in parte derivante dall'esperienza del pensiero marxista.

In molti dei Paesi non appartenenti alla categoria di quelli più progrediti i primi quindici anni del Novecento sono anni di rivoluzioni o quanto meno di rivolte, più o meno diffuse, più o meno riuscite: Cina, Impero ottomano, Messico e soprattutto Russia sono i casi più importanti.
La effimera Rivoluzione russa del 1905 aveva mostrato le crepe dell'impero zarista, anticipando la dirompente Rivoluzione del 1917, che avrebbe cambiato il corso della storia in maniera analoga a quanto aveva fatto quella francese del 1789.
La Russia zarista offriva l'esempio di tutte le contraddizioni del globo nell'età imperiale. Per farle esplodere simultaneamente occorreva soltanto quella guerra mondiale che l'Europa sempre più antivedeva, e che si scoprì incapace di impedire”.

Era dal 1871 che non si registrava un conflitto diretto tra potenze europee, da quella guerra franco-prussiana che aveva decretato la schiacciante vittoria dei tedeschi, i quali avevano annesso le regioni francesi dell'Alsazia e della Lorena.
Erano passati più di quarant'anni da allora.
Per questo, e per altri motivi, in pochissimi avrebbero creduto allo scoppio di un conflitto di carattere globale. Eppure nei quarant'anni di pace che precedettero la prima guerra mondiale vi fu una corsa agli armamenti senza precedenti, in parte dovuta a ragioni economiche (già Engels aveva rilevato che la guerra era diventata un ramo della grande industria), in parte alla situazione politico-sociale europea, che fu poi la vera causa scatenante del conflitto (essendo fuorviante e dietrologico pensare ad una responsabilità dei fabbricanti di armi).
Il problema di scoprire le origini della prima guerra mondiale non è quindi il problema di scoprire l'aggressore. Esso sta nel carattere di una situazione internazionale in progressivo deterioramento, che sempre più sfuggiva al controllo dei governi”.
I contrasti tra Russia e Austria-Ungheria (per il controllo – diretto e indiretto – dei Balcani) e tra Francia e Germania (per l'Alsazia-Lorena) portano agli schieramenti che vedono necessariamente contrapposti il blocco mitteleuropeo, da una parte, e quello franco-russo, dall'altra, nonostante non vi fossero particolari attriti tra Germania e Russia e tra Francia e Impero asburgico. La vera sorpresa arriva dalla decisione dell'Inghilterra, maturata già dai primi del Secolo, di schierarsi con la Francia, rompendo clamorosamente un'opposizione secolare tra le due potenze. Ciò significava schierarsi anche con la (ex) nemica Russia, che tuttavia non era più vista dall'Inghilterra come un pericolo, anche grazie all'alleanza di quest'ultima con il Giappone che aveva sconfitto in guerra l'Impero zarista nel 1905.
In questo contesto, l'assassinio dell'arciduca austriaco Francesco Ferdinando, erede al trono d'Austria, fu soltanto la più banale delle scintille che dava fuoco alle polveri.

Nell'illuminante epilogo l'Autore illustra brevemente gli anni successivi al 1914: la catastrofe della prima guerra mondiale, vero e proprio evento spartiacque della storia moderna; la rivoluzione socialista, per certi versi inevitabile, vista la situazione di molti Paesi, e che anzi fu meno estesa di quanto ci si attendeva dopo gli eventi del 1917; una nuova visione dell'economia, quella keynesiana, che intervenne a mitigare il capitalismo puro del periodo ante guerra e che permise di affrontare situazioni economicamente drammatiche come la Grande Crisi degli anni '30 del Novecento.

Gli anni tra il 1875 e il 1914 rappresentarono il maggiore (e anche l'ultimo) momento di protagonismo dell'Europa nella storia moderna, con gli Stati Uniti che andavano progressivamente emancipandosi, per poi conquistare il rango di super-potenza; sono gli anni del capitalismo industriale selvaggio e delle speranze socialiste; sono anni che per certi versi hanno forgiato il Novecento, pur se quest'ultimo è stato segnato e stravolto, per l'appunto, dai due concomitanti avvenimenti della prima guerra mondiale e della Rivoluzione russa.

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Il libro di Hobsbawm, non di certo un testo semplice, è interessantissimo per il suo insolito approccio interdisciplinare, attento soprattutto ai temi economici.
In pochi sono capaci di raccontare così bene la Storia: non una collezione asettica di avvenimenti, bensì una ricostruzione ragionata e appassionata del contesto di quei quarant'anni; idee più che episodi; una raccolta di tendenze più che di istantanee.
Hobsbawm è nato in Egitto, da una famiglia ebraica di origine austriache e si è trasferito fin da giovane a Londra. Questa sua natura multiculturale si rispecchia nello stile con cui ci racconta la storia di quegli anni, con splendido respiro internazionale. Uno scrittore di formazione marxista che tuttavia si esprime con una lucidità ed un rigore ineccepibile, dando vita ad un'opera che è davvero fondamentale per capire quegli anni della storia del nostro pianeta e, come al solito, per comprendere il nostro presente e cosa potrà essere il nostro futuro.

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