Anno di prima pubblicazione: 1987
Edito da: Laterza
Voto: 8,5/10
Pagg.: 456
Traduttore: Franco Salvatorelli
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Lo storico britannico Eric Hobsbawm è
famoso per aver coniato due definizioni divenute di uso comune nella
storiografia e spesso richiamate anche dai giornalisti: quella di
Secolo breve, con cui l'Autore definì il Novecento, e quella
di Lungo XIX secolo (o Lungo Ottocento), con cui invece
richiamava il periodo che va dalla Rivoluzione americana del 1776 (o
comunque dalla Rivoluzione francese del 1789) all'agosto del 1914, e
precisamente allo scoppio della prima guerra mondiale.
Tali due concetti sono al centro di
quattro opere di carattere storico scritte da Hobsbawm: una è quella
che prende proprio il nome dalla prima definizione, Il secolo
breve. Le altre tre sono invece concentrate sul Lungo
Ottocento e sono:
Le Rivoluzioni Borghesi. 1789-1848
(The Age of Revolution)
Il Trionfo della Borghesia.
1848-1875 (The Age of Capital)
e per l'appunto questo
L'Età degli Imperi. 1875-1914
(The Age of Empire).
La data scelta dall'Autore per chiudere
un'epoca quale il Lungo Ottocento e aprire il Secolo breve
è assai importante perché, come spiega Hobsbawm, “l'agosto
1914 è una delle più incontestabili cesure naturali della storia”.
Con lo scoppio della prima guerra
mondiale, infatti, “La rivoluzione il cui ricordo domina il
mondo dalla Grande Guerra in qua, non è più la Rivoluzione francese
del 1789. La cultura da cui il mondo è permeato non è più la
cultura borghese quale era intesa prima del 1914. (…) Nel bene e
nel male, dal 1914 il secolo della borghesia appartiene alla storia”.
Il libro prende le mosse dai centenari
delle rivoluzioni americana e francese (1876 e 1889) per rilevare gli
stravolgimenti accaduti proprio in quegli ultimi cento anni: la
rivoluzione demografica, quella urbana e quella industriale, che
hanno portato gli anni '80 dell'Ottocento a essere così diversi
dagli stessi anni del Settecento; molto più di quanto questi ultimi
lo fossero stati rispetto ai secoli precedenti
Da un punto di vista economico il
periodo 1875-1914 può essere diviso in due parti: la prima
corrisponde alla Grande Depressione economica degli ultimi
decenni dell'Ottocento, una crisi che tocca in particolar modo
l'agricoltura, portando a fenomeni migratori diffusi che cercano di
porre un argine sociale al problema; la seconda coincide con la
ripresa e lo sviluppo economico che va da fine Ottocento fino al
1914, nel periodo tradizionalmente definito Belle Époque. Una
crescita che frustra le speranze dei socialisti nel profetizzato
crollo del capitalismo.
Il quarantennio in questione viene
definito Età degli imperi perché in questi anni si assiste
allo sviluppo e all'apogeo del colonialismo, che diventa
imperialismo nella sua accezione tradizionalmente negativa. Ma
è anche – più in senso letterale – l'era in cui si conta il
maggior numero di imperatori: in Europa, soprattutto, ma anche in
Asia (Giappone) e Africa (Etiopia e Marocco).
L'approccio colonialista-imperialista
delle super-potenze è dovuto, in primis, a necessità economiche e
politiche (il prestigio internazionale), ma anche a ragioni interne,
come giustamente sostiene chi afferma che in mancanza di
colonialismo, in tali Paesi, la guerra civile sarebbe stata
inevitabile.
Tra fine Ottocento e inizio Novecento
si assiste ovunque all'estensione del suffragio a causa
principalmente delle agitazioni socialiste e delle ripercussioni
dovute alla Rivoluzione russa del 1905: “La democrazia politica
non poteva più essere rinviata. D'ora in avanti, il problema era
come manipolarla”.
Ecco dunque che la democrazia porta con
sé una ventata di ipocrisia, a causa della necessità della classe
politica di rivolgersi ad un elettorato che fino a qualche tempo
prima disprezzava, che riteneva inferiore e a cui ora invece deve
puntare al consenso.
Sono gli anni dell'esponenziale
crescita del socialismo a cui la maggior parte dei governi risponde,
dopo l'iniziale tentativo di contrastarlo su tutti i fronti, con
pressoché indispensabili concessioni per tenere a bada le frange più
estreme.
Un socialismo che all'inizio del
quarantennio in esame guardava alla repubblica democratica come un
passaggio importante e prodromico alla vittoria proletaria (così
Marx, che muore nel 1883), per poi giungere, invece, alla totale
disapprovazione di essa perché ritenuta compromessa con il
capitalismo, che la sfrutta come un guscio per i suoi fini (Lenin,
che si espresse così nel 1917).
La crescita del socialismo è
ovviamente dovuta all'esponenziale crescita di una classe operaia
urbana che con l'andare del tempo acquista consapevolezza di sé e
della propria importanza, nonché del proprio sfruttamento.
Un qualcosa di diametralmente opposto a
quanto stava accadendo oltreoceano: “Se il sogno americano era
individualistico, quello dell'operaio europeo era generalmente
collettivo”.
Con la ripresa economica di fine
Ottocento, tuttavia, tramontata la certezza di un imminente crollo
del capitalismo che la Grande Depressione aveva ingenerato,
molti partiti socialisti si trovano inevitabilmente ad abbracciare
posizioni più moderate, per ottenere conquiste nell'immediato. Solo
nei paesi del Europa meridionale e in Russia rimane forte il
movimento anarchico e la pulsione verso la rivoluzione.
Nasce contemporaneamente la necessità
di allargare la base, se davvero la socialdemocrazia vuole puntare ad
essere un partito maggioritario. Ecco dunque il tentativo di
rivolgersi all'ampia classe dei lavoratori della terra, con risultati
tuttavia non del tutto soddisfacenti e forse anche controproducenti:
un'operazione del genere non era infatti per nulla semplice per un
movimento che si identificava nella stessa classe operaia e che
uscendo da tale confine sociale rischiava di snaturarsi.
Altro termine chiave del periodo in
esame è nazionalismo, che si lega ai precedenti
colonialismo/imperialismo e socialismo per essere un
prerequisito del primo e l'antitesi politica del secondo (siccome il
nazionalismo era spesso collocato ideologicamente a destra: “la
bandiera del patriottismo diventò a tal punto un bene di proprietà
della destra, che la sinistra si trovò imbarazzata a impugnarla,
anche là dove, come in Francia, il tricolore patriottico si
identificava strettamente con la rivoluzione e la causa popolare”).
Al nazionalismo/patriottismo puntavano
le grandi potenze per arginare il socialismo, forgiandolo
principalmente nelle scuole e con l'esercito.
“Fino al trionfo della
televisione, non ci fu mezzo di propaganda laico paragonabile
all'aula scolastica”.
All'estero, invece, un ruolo
fondamentale nella creazione di un'identità nazionale era rivestito
dalla solidarietà tra migranti (all'arrivo negli Stati Uniti, quelli
che si erano sempre definiti napoletani piuttosto che
siciliani venivano tutti chiamati italiani).
Il nazionalismo si accompagnava alla
xenofobia e in particolare all'antisemitismo, e sfociava, nelle sue
espressioni più intransigenti, nello sciovinismo.
“Un nazionalismo siffatto si
prestava assai bene a esprimere i malumori collettivi di gente che
non sapeva spiegare con chiarezza i propri motivi di malcontento. Era
tutta colpa degli stranieri”.
Se è vero che l'Ottocento è stato il
secolo della borghesia, è anche vero che l'apice dei frutti della
ricchezza borghese furono colti soltanto tra la fine del XIX secolo e
l'inizio del Novecento, in quel periodo che proprio per questo veniva
(e viene) chiamato (non senza un tocco di nostalgia da parte di chi
l'aveva vissuto) Belle Époque.
Ma era quello stesso periodo in cui
andavano formandosi le minacce allo stile di vita borghese: il
socialismo e il timore per le rivoluzioni proletarie in primis.
In ogni caso, la ricchezza borghese
sempre crescente porta ad una ridefinizione delle classi sociali:
“anche vecchie e radicate monarchie ammettevano che il denaro
era adesso un criterio di nobiltà altrettanto valido del sangue
blu”.
Ma la stessa classe borghese era
estremamente variegata: si andava dai piccoli borghesi che
guadagnavano soltanto poco più di un operaio qualificato (ma che
spendevano molto di più per mantenere la dignità di classe) alla
media borghesia, fino ai ricchi e ai super-ricchi, i cosiddetti
plutocrati, che avevano un'influenza sulla vita politico-sociale del
Paese (i vari Rockefeller, J.P. Morgan, Krupp).
I segni distintivi borghesi si
ravvisavano nella frequentazione di scuole prestigiose, nella pratica
di determinati sport, nella possibilità di permettersi lunghe
vacanze e automobili (in Europa, soltanto per i più agiati). La
condizione minima per essere considerati borghesi era quella di avere
personale di servizio.
In seno a queste classi si sviluppavano
gli artisti dell'epoca: principalmente letterati (che spesso vivevano
di rendita) e musicisti.
L'Autore dedica un lungo capitolo al
ruolo della donna in quegli anni. Essa guadagnò una progressiva (ma
ancora modesta) emancipazione nelle classi della borghesia medio-alta
e dell'aristocrazia. Una "donna nuova" che si
manifestava in alcune grandi figure come Rosa Luxemburg e Marie
Curie, rispettivamente attive nel campo politico e scientifico.
Vi è poi un capitolo sull'evoluzione
dell'arte nel quarantennio.
Gli artisti erano profondamente
influenzati dalla situazione socio-politica e vennero anch'essi
frustrati dalla revisione delle attese: “Dagli anni intorno al
1895, quando fu chiaro che la grande avanzata del socialismo non
portava alla rivoluzione, bensì a movimenti organizzati di massa
impegnati in attività ricche di speranza, ma di ordinaria
amministrazione, artisti e esteti ne trassero minore ispirazione”.
Dal punto di vista delle arti, in ogni
caso, è sicuramente l'invenzione del cinema a rappresentare la
novità più dirompente.
Il cinema rappresenta una nuova
concezione dell'arte, trattandosi, come lo definisce l'Autore, di uno
"spettacolo di massa industrializzato" che non
poteva che essere figlio di quell'epoca.
Ma la vera rivoluzione nel senso più
pregnante del termine, ossia quello di stravolgimento dello status
quo, avvenne in un altro campo del sapere umano, quello delle scienze
e in particolare nella fisica. Tra fine Ottocento e il primo decennio
del Novecento le stesse fondamenta della concezione umana della
natura, fino ad allora ritenute una certezza inattaccabile, vennero
inesorabilmente scosse.
Lo scontro tra scienziati di vecchia
generazione impegnati a difendere le (ormai) antiche concezioni e
quelli della nuova generazione dediti a sconvolgerle fu lungo e
controverso: “non furono gli intelletti raffinati quelli
disposti ad ammettere che il re era nudo: persero tempo a inventare
teorie per spiegare perché i suoi vestiti erano insieme splendidi e
invisibili”.
La commistione tra scienza e politica,
tuttavia, non fu prerogativa della fisica (almeno in quegli anni),
bensì della biologia: andavano formandosi in quel periodo le due
discipline della eugenica (prima) e della genetica
(poi), che avranno importanza fondamentale (e deleteria) nel corso
del Novecento.
Per quanto riguarda le scienze sociali,
invece, nel quarantennio in esame sorsero nuove discipline quali la
psicanalisi di Freud e la sociologia, in parte derivante
dall'esperienza del pensiero marxista.
In molti dei Paesi non appartenenti
alla categoria di quelli più progrediti i primi quindici anni del
Novecento sono anni di rivoluzioni o quanto meno di rivolte, più o
meno diffuse, più o meno riuscite: Cina, Impero ottomano, Messico e
soprattutto Russia sono i casi più importanti.
La effimera Rivoluzione russa del 1905
aveva mostrato le crepe dell'impero zarista, anticipando la
dirompente Rivoluzione del 1917, che avrebbe cambiato il corso della
storia in maniera analoga a quanto aveva fatto quella francese del
1789.
“La Russia zarista offriva
l'esempio di tutte le contraddizioni del globo nell'età imperiale.
Per farle esplodere simultaneamente occorreva soltanto quella guerra
mondiale che l'Europa sempre più antivedeva, e che si scoprì
incapace di impedire”.
Era dal 1871 che non si registrava un
conflitto diretto tra potenze europee, da quella guerra
franco-prussiana che aveva decretato la schiacciante vittoria dei
tedeschi, i quali avevano annesso le regioni francesi dell'Alsazia e
della Lorena.
Erano passati più di quarant'anni da
allora.
Per questo, e per altri motivi, in
pochissimi avrebbero creduto allo scoppio di un conflitto di
carattere globale. Eppure nei quarant'anni di pace che precedettero
la prima guerra mondiale vi fu una corsa agli armamenti senza
precedenti, in parte dovuta a ragioni economiche (già Engels aveva
rilevato che la guerra era diventata un ramo della grande industria),
in parte alla situazione politico-sociale europea, che fu poi la vera
causa scatenante del conflitto (essendo fuorviante e dietrologico
pensare ad una responsabilità dei fabbricanti di armi).
“Il problema di scoprire le
origini della prima guerra mondiale non è quindi il problema di
scoprire l'aggressore. Esso sta nel carattere di una situazione
internazionale in progressivo deterioramento, che sempre più
sfuggiva al controllo dei governi”.
I contrasti tra Russia e
Austria-Ungheria (per il controllo – diretto e indiretto – dei
Balcani) e tra Francia e Germania (per l'Alsazia-Lorena) portano agli
schieramenti che vedono necessariamente contrapposti il blocco
mitteleuropeo, da una parte, e quello franco-russo, dall'altra,
nonostante non vi fossero particolari attriti tra Germania e Russia e
tra Francia e Impero asburgico. La vera sorpresa arriva dalla
decisione dell'Inghilterra, maturata già dai primi del Secolo, di
schierarsi con la Francia, rompendo clamorosamente un'opposizione
secolare tra le due potenze. Ciò significava schierarsi anche con la
(ex) nemica Russia, che tuttavia non era più vista dall'Inghilterra
come un pericolo, anche grazie all'alleanza di quest'ultima con il
Giappone che aveva sconfitto in guerra l'Impero zarista nel 1905.
In questo contesto, l'assassinio
dell'arciduca austriaco Francesco Ferdinando, erede al trono
d'Austria, fu soltanto la più banale delle scintille che dava fuoco
alle polveri.
Nell'illuminante epilogo l'Autore
illustra brevemente gli anni successivi al 1914: la catastrofe della
prima guerra mondiale, vero e proprio evento spartiacque della storia
moderna; la rivoluzione socialista, per certi versi inevitabile,
vista la situazione di molti Paesi, e che anzi fu meno estesa di
quanto ci si attendeva dopo gli eventi del 1917; una nuova visione
dell'economia, quella keynesiana, che intervenne a mitigare il
capitalismo puro del periodo ante guerra e che permise di affrontare
situazioni economicamente drammatiche come la Grande Crisi degli anni
'30 del Novecento.
Gli anni tra il 1875 e il 1914
rappresentarono il maggiore (e anche l'ultimo) momento di
protagonismo dell'Europa nella storia moderna, con gli Stati Uniti
che andavano progressivamente emancipandosi, per poi conquistare il
rango di super-potenza; sono gli anni del capitalismo industriale
selvaggio e delle speranze socialiste; sono anni che per certi versi
hanno forgiato il Novecento, pur se quest'ultimo è stato segnato e
stravolto, per l'appunto, dai due concomitanti avvenimenti della
prima guerra mondiale e della Rivoluzione russa.
*-*
Il libro di Hobsbawm, non di certo un
testo semplice, è interessantissimo per il suo insolito approccio
interdisciplinare, attento soprattutto ai temi economici.
In pochi sono capaci di raccontare così
bene la Storia: non una collezione asettica di avvenimenti, bensì
una ricostruzione ragionata e appassionata del contesto di quei
quarant'anni; idee più che episodi; una raccolta di tendenze più
che di istantanee.
Hobsbawm è nato in Egitto, da una
famiglia ebraica di origine austriache e si è trasferito fin da
giovane a Londra. Questa sua natura multiculturale si rispecchia
nello stile con cui ci racconta la storia di quegli anni, con
splendido respiro internazionale. Uno scrittore di formazione
marxista che tuttavia si esprime con una lucidità ed un rigore
ineccepibile, dando vita ad un'opera che è davvero fondamentale per
capire quegli anni della storia del nostro pianeta e, come al solito,
per comprendere il nostro presente e cosa potrà essere il nostro
futuro.
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