Anno di prima pubblicazione: 1734
Edito da: Rizzoli
Voto: 7/10
Pagg.: 248
Traduttore: Davide Monda
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Montesquieu non fu soltanto un grande filosofo illuminista ed un fine giurista. La varietà dei suoi interessi, che viene a galla già in un’opera come le Lettere persiane, lo portò ad abbracciare anche e soprattutto la materia storica.
Per le persone acculturate (e
benestanti) della prima metà del Settecento l’antica Roma aveva un
fascino notevole. A quel tempo il viaggio in Italia era una delle
occasioni formative più importanti per l’individuo e la visita
alla Città eterna era una tappa fondamentale di tale viaggio.
In questo libro, scritto nel 1734,
esattamente a metà strada tra le Lettres persanes e Lo
spirito delle leggi, Montesquieu analizza la storia di Roma
antica, cercando di individuare le cause che la portarono a
conquistare buona parte del mondo allora conosciuto, nonché le cause
per cui tale grandezza e tale potere tramontarono poi nel corso dei
secoli.
Partendo dall’analisi del periodo
della Repubblica, il filosofo di La Brède mette in luce l’iniziale
strategia romana (quando la città era ancora di dimensioni
relativamente modeste) di evitare di sottomettere fin da subito i
popoli nemici, preferendo piuttosto costruire una serie di
Stati-satellite da inglobare al momento più opportuno:
“Bisognava attendere che tutte le
nazioni fossero avvezzate a obbedire come libere e come alleate,
prima di dominarle come suddite”.
Un popolo vinto in guerra veniva così
soltanto indebolito progressivamente:
“esso diventava dunque suddito
senza che si potesse stabilire l’inizio del suo assoggettamento”.
In questo modo Roma diventava “la
testa di un corpo formato da tutti i popoli del mondo”.
Dalla Repubblica all’Impero la
strategia per il mantenimento del potere cambia.
Con una Nazione che era ormai diventata
una potenza enorme negli equilibri del Mediterraneo, la prima
attenzione fu quella di cercare di mantenere la pace, anziché
muovere altre guerre. Sia perché occorreva prima di tutto
controllare un territorio sempre più vasto, sia perché gli
eserciti, come si era nettamente visto nell’ultima fase della
Repubblica, erano diventati un veicolo per l’ascesa al potere, e in
caso di nuove guerre avrebbero chiesto un prezzo sempre maggiore per
i loro servigi.
Con Traiano l’Impero romano raggiunge
la sua massima espansione territoriale. Il suo successore, Adriano,
abbandonerà le conquiste di Traiano, limitando l’Impero
all’Eufrate:
“ed è mirabile che, dopo tante
guerre, i Romani avessero perduto solo ciò che avevano voluto
abbandonare, come il mare, che è meno esteso soltanto quando si
ritira da solo”.
La fine dell’Impero giungerà da
quelle terre del nord che i romani avevano evitato, a causa delle
foreste e dei ghiacci. Quei ghiacci in cui “si conservarono, o
meglio si formarono, nazioni che infine li assoggettarono”.
L’Autore traccia un bilancio della
propria trattazione nella parte finale in cui sintetizza in questo
modo l’ascesa e la caduta del popolo romano:
“I Romani giunsero a comandare
tutti i popoli non solo con l’arte della guerra, ma pure con la
loro prudenza, la loro saggezza, la loro costanza, il loro amore per
la gloria e per la patria. Quando, sotto gli imperatori, tutte queste
virtù svanirono, restò loro l’arte militare, con la quale
conservarono, nonostante la debolezza e la tirannia dei prìncipi,
quanto avevano acquistato; ma, allorché la corruzione entrò anche
nell’esercito, essi divennero preda di tutti i popoli”.
Vi sono dunque, secondo Montesquieu,
principalmente ragioni morali per cui un grande popolo come quello
romano sia stato infine assoggettato dai barbari. Quando i princìpi
che denotavano la rettitudine romana – nell’arte di governo come
in quella della guerra – vennero via via a sgretolarsi, vi fu
un’inesorabile declino.
Una sintesi siffatta può apparire
semplicistica, ma il libro è sicuramente interessante e vale la pena
di esser letto dagli appassionati di storia.
Sicuramente non brilla per
approfondimento (Voltaire, sprezzante come al solito, ne disse: “Più
che un libro, è un ingegnoso indice scritto in uno stile bizzarro”),
eppure è scritto in modo semplice ma appassionante, introducendo
alcuni dei pensieri che confluiranno nell’opera più celebre di
Montesquieu, L'esprit des lois.
In particolare, emerge l’idea -
decisamente poco illuministica anche se proveniente da uno dei
massimi esponenti di quel movimento - che tutte le forme di governo,
anche quelle capaci di acquisire un enorme potere, siano destinate a
tramontare.
La scienza storica ha fatto passi da
gigante dal primo Settecento ad oggi e l’opera di Montesquieu non
può assolutamente essere presa come riferimento per lo studio della
storia romana. Anzi l’Autore pecca in diverse occasioni di senso
critico e di scientificità nell’utilizzo delle fonti, soprattutto
nell’analisi dei secoli più risalenti, per i quali Montesquieu
presenta personaggi e situazioni di cui è dubbia persino l’esistenza
(fidandosi ciecamente di alcune fonti dal sapore leggendario).
Inoltre, l’Autore considera poco o
nulla alcune discipline ausiliarie quali l’archeologia e la
numismatica, cui oggi gli storici fanno ampio ricorso.
Ciò nonostante resta un’opera
importante per conoscere il Montesquieu storico.
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