18 settembre 2016

Considerazioni sulle cause della grandezza e della decadenza dei romani, di Montesquieu

Considerazioni sulle cause della grandezza e della decadenza dei romani (Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence), di Charles-Louis de Montesquieu

Anno di prima pubblicazione: 1734

Edito da: Rizzoli

Voto: 7/10

Pagg.: 248

Traduttore: Davide Monda

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Montesquieu non fu soltanto un grande filosofo illuminista ed un fine giurista. La varietà dei suoi interessi, che viene a galla già in un’opera come le Lettere persiane, lo portò ad abbracciare anche e soprattutto la materia storica.

Per le persone acculturate (e benestanti) della prima metà del Settecento l’antica Roma aveva un fascino notevole. A quel tempo il viaggio in Italia era una delle occasioni formative più importanti per l’individuo e la visita alla Città eterna era una tappa fondamentale di tale viaggio.
In questo libro, scritto nel 1734, esattamente a metà strada tra le Lettres persanes e Lo spirito delle leggi, Montesquieu analizza la storia di Roma antica, cercando di individuare le cause che la portarono a conquistare buona parte del mondo allora conosciuto, nonché le cause per cui tale grandezza e tale potere tramontarono poi nel corso dei secoli.

Partendo dall’analisi del periodo della Repubblica, il filosofo di La Brède mette in luce l’iniziale strategia romana (quando la città era ancora di dimensioni relativamente modeste) di evitare di sottomettere fin da subito i popoli nemici, preferendo piuttosto costruire una serie di Stati-satellite da inglobare al momento più opportuno:
Bisognava attendere che tutte le nazioni fossero avvezzate a obbedire come libere e come alleate, prima di dominarle come suddite”.
Un popolo vinto in guerra veniva così soltanto indebolito progressivamente:
esso diventava dunque suddito senza che si potesse stabilire l’inizio del suo assoggettamento”.
In questo modo Roma diventava “la testa di un corpo formato da tutti i popoli del mondo”.
Dalla Repubblica all’Impero la strategia per il mantenimento del potere cambia.
Con una Nazione che era ormai diventata una potenza enorme negli equilibri del Mediterraneo, la prima attenzione fu quella di cercare di mantenere la pace, anziché muovere altre guerre. Sia perché occorreva prima di tutto controllare un territorio sempre più vasto, sia perché gli eserciti, come si era nettamente visto nell’ultima fase della Repubblica, erano diventati un veicolo per l’ascesa al potere, e in caso di nuove guerre avrebbero chiesto un prezzo sempre maggiore per i loro servigi.
Con Traiano l’Impero romano raggiunge la sua massima espansione territoriale. Il suo successore, Adriano, abbandonerà le conquiste di Traiano, limitando l’Impero all’Eufrate:
ed è mirabile che, dopo tante guerre, i Romani avessero perduto solo ciò che avevano voluto abbandonare, come il mare, che è meno esteso soltanto quando si ritira da solo”.
La fine dell’Impero giungerà da quelle terre del nord che i romani avevano evitato, a causa delle foreste e dei ghiacci. Quei ghiacci in cui “si conservarono, o meglio si formarono, nazioni che infine li assoggettarono”.

L’Autore traccia un bilancio della propria trattazione nella parte finale in cui sintetizza in questo modo l’ascesa e la caduta del popolo romano:
I Romani giunsero a comandare tutti i popoli non solo con l’arte della guerra, ma pure con la loro prudenza, la loro saggezza, la loro costanza, il loro amore per la gloria e per la patria. Quando, sotto gli imperatori, tutte queste virtù svanirono, restò loro l’arte militare, con la quale conservarono, nonostante la debolezza e la tirannia dei prìncipi, quanto avevano acquistato; ma, allorché la corruzione entrò anche nell’esercito, essi divennero preda di tutti i popoli”.
Vi sono dunque, secondo Montesquieu, principalmente ragioni morali per cui un grande popolo come quello romano sia stato infine assoggettato dai barbari. Quando i princìpi che denotavano la rettitudine romana – nell’arte di governo come in quella della guerra – vennero via via a sgretolarsi, vi fu un’inesorabile declino.
Una sintesi siffatta può apparire semplicistica, ma il libro è sicuramente interessante e vale la pena di esser letto dagli appassionati di storia.
Sicuramente non brilla per approfondimento (Voltaire, sprezzante come al solito, ne disse: “Più che un libro, è un ingegnoso indice scritto in uno stile bizzarro”), eppure è scritto in modo semplice ma appassionante, introducendo alcuni dei pensieri che confluiranno nell’opera più celebre di Montesquieu, L'esprit des lois.
In particolare, emerge l’idea - decisamente poco illuministica anche se proveniente da uno dei massimi esponenti di quel movimento - che tutte le forme di governo, anche quelle capaci di acquisire un enorme potere, siano destinate a tramontare.

La scienza storica ha fatto passi da gigante dal primo Settecento ad oggi e l’opera di Montesquieu non può assolutamente essere presa come riferimento per lo studio della storia romana. Anzi l’Autore pecca in diverse occasioni di senso critico e di scientificità nell’utilizzo delle fonti, soprattutto nell’analisi dei secoli più risalenti, per i quali Montesquieu presenta personaggi e situazioni di cui è dubbia persino l’esistenza (fidandosi ciecamente di alcune fonti dal sapore leggendario).
Inoltre, l’Autore considera poco o nulla alcune discipline ausiliarie quali l’archeologia e la numismatica, cui oggi gli storici fanno ampio ricorso.
Ciò nonostante resta un’opera importante per conoscere il Montesquieu storico.

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