24 ottobre 2014

Non è un paese per vecchi, di Cormac McCarthy

Non è un paese per vecchi (No Country for Old Men), di Cormac McCarthy

Anno di prima pubblicazione: 2005

Edito da: Einaudi

Voto: 9/10

Pagg.: 252

Traduttore: Martina Testa

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Non è un paese per vecchi è sicuramente un romanzo anomalo, sui generis.
Affronta i temi della narrativa di genere, e in particolare del thriller, con un piglio autoriale che ha tutto meno che il sapore della letteratura di consumo.
L’ambientazione strizza l’occhio al western, in un generale background nostalgico.
È un ponte verso la modernità, i cui piloni scricchiolano pericolosamente.
L’abisso generazionale tra gli “old men” del titolo e il nuovo che avanza, in modo ineluttabilmente stravolgente, ha un retrogusto assai amaro.
Llewelyn Moss, reduce dal Vietnam e saldatore di professione, si ritrova, durante una battuta di caccia in mezzo al deserto, sul sanguinoso teatro di uno scambio tra narcotrafficanti finito in massacro.
Nessun sopravvissuto, solo un pick-up carico di eroina purissima e una valigetta zeppa di denaro, di cui Moss si impossessa.
O forse un sopravvissuto c’è: quel messicano che reclamava “Agua”, ma che è stato abbandonato lì da Moss, a morire.
Gli scrupoli di coscienza lo portano a tornare dopo qualche ora sul luogo del massacro. E mentre ci va, già sa che sta facendo la cazzata più grande della sua vita.
Intercettato dalla retroguardia dei narcos, venuta a fare pulizia e recuperare droga e denaro, riesce a stento a fuggire con i soldi nel deserto. Ma ormai è compromesso. I narcos hanno individuato il suo pick-up prendendone la targa.
Inizia una fuga disperata, al confine tra Texas e Messico.
Sulle sue tracce si mette anche lo spietato killer Anton Chigurh, un cinico e freddo assassino, diabolico ai limiti dell’inumano, che uccide con un’arma insolita: la pistola ad aria compressa con cui si sopprimono i vitelli negli allevamenti.
Anche lo sceriffo di Contea Ed Tom Bell si mette sulle tracce di Moss, per cercare di salvarlo dai suoi inseguitori, in osservanza di un atavico codice d’onore, retaggio di tempi che sembrano, al giorno d’oggi, calpestati e irrisi…
Il tema del rapporto tra i cari vecchi tempi e l’arroganza della modernità (il romanzo è ambientato negli anni Settanta), è centrale in tutta la narrazione, come si può desumere, peraltro, sin dal titolo.
Cambiano i tempi, cambiano i criminali, e lo sceriffo Bell, ormai prossimo alla pensione, assiste a questi mutamenti sulla propria pelle, sulla propria routine, barbaramente funestata da crimini sempre più efferati:
Un tempo dicevo che quelli con cui avevamo a che fare erano sempre gli stessi. Gli stessi con cui aveva a che fare mio nonno. Ai suoi tempi rubavano il bestiame. Oggi spacciano la droga. Ma adesso forse non è più vero. Io la penso come te. Mi sa che gente così non l’abbiamo mai vista prima d’ora. Gente di questo tipo. Non so neanche cosa bisognerebbe fare con loro. Se uno li ammazzasse tutti, toccherebbe costruire una dépendance dell’inferno.
Questo spirito d'altri tempi infuso all’interno di un western-thriller autoriale (come altro definirlo?) è sicuramente uno degli aspetti più interessanti di No country for old men.
Un’atmosfera d'antan, tipica della cultura country.
Se chiedessero a Bob Dylan di recensire con una frase questo romanzo, il menestrello di Duluth direbbe sicuramente “The times they are a-changin”.
E in un certo qual modo McCarthy lo fa dire pure allo sceriffo Bell, sebbene con un antitetico intento di condanna del cambiamento:
Qualche tempo fa ho letto sul giornale che certi insegnanti avevano ritrovato un sondaggio inviato negli anni Trenta a un certo numero di scuole di tutto il paese. Era stato fatto un questionario sui problemi dell’insegnamento nelle scuole. E loro hanno ritrovato i moduli compilati e spediti da ogni parte del paese, con le risposte alle domande. E i problemi più gravi che venivano fuori erano tipo che gli alunni parlavano in classe e correvano nei corridoi. O masticavano la gomma. O copiavano i compiti. Roba così. E allora avevano preso uno di quei moduli rimasto in bianco, ne avevano stampate un po’ di copie e le avevano mandate alle stesse scuole. Dopo quarant’anni. Be’, ecco le risposte. Stupri, incendi, assassini. Droga. Suicidi. E io ci penso a queste cose. Perché il più delle volte, quando dico che il mondo sta andando alla malora, e di corsa, la gente mi fa un mezzo sorriso e mi dice che sono io che sto invecchiando. E che quello è uno dei sintomi. Ma per come la vedo io uno che non sa capire la differenza tra stuprare e ammazzare la gente e masticare la gomma in classe è messo molto peggio di me. E quarant’anni non sono mica così tanti. Magari fra altri quaranta la gente avrà aperto gli occhi. Sempre che non sia troppo tardi.
Il personaggio dello sceriffo Bell, che nelle vicende criminali narrate, peraltro, entra poco o nulla (se non a cose fatte), è fondamentale in questo senso: è uno spettatore esterno del cambiamento, assiste impotente alla consumazione di delitti efferati senza poter fare nulla, se non rammaricarsi e restare sconcertato per la loro inutile crudeltà.
A lui vengono affidati i tanti monologhi che occupano interi, ancorché brevi, capitoli del romanzo e che fungono da amaro e disilluso interludio ai capitoli più propriamente narrativi.
Lo sceriffo Bell è un personaggio che molti potrebbero, di primo acchito, ricondurre in un’orbita conservatrice, repubblicana:
Alla fine mi ha detto: Non mi piace la direzione in cui sta andando questo paese. Voglio che mia nipote sia libera di abortire. E io le ho risposto guardi signora, secondo me non si deve preoccupare della direzione in cui va il paese. Per come la vedo io, non c’è il minimo dubbio che sua nipote potrà abortire. Anzi le dirò, non solo sarà libera di abortire, ma sarà libera anche di mandarla al Creatore.
Eppure Bell non rappresenta altro che la coscienza medio-popolare che si cerca di ribellare alla deriva dei tempi moderni.
No country for old men è un romanzo a tratti estremamente crudo, ma decisamente efficace nel descrivere la barbara spietatezza del crimine:
Chiuse gli occhi e voltò la testa e alzò una mano come per schivare quello che non poteva schivare. Chigurh gli sparò in faccia. Tutto quello che Wells aveva mai saputo o pensato o amato sgocciolò lentamente lungo la parete alle sue spalle. Il viso di sua madre, la sua prima comunione, le donne che aveva conosciuto. Le facce degli uomini che erano morti in ginocchio davanti a lui. Il corpo di un bambino morto dentro un fosso lungo la strada in un altro paese. Rimase steso sul letto con solo mezza testa attaccata al collo e le braccia spalancate; della mano destra non restava quasi nulla. Chigurh si alzò e raccolse il bossolo dal tappeto, ci soffiò dentro, lo mise in tasca e guardò l’ora. Mancava ancora un minuto al nuovo giorno.
Chigurh è simbolo di quella banalità del male (per usare un’espressione della Arendt) che nel suo caso sfocia nella inutile diabolicità del male: le vite decise con un testa o croce, l’uccisione a sangue freddo della compagna di Moss, quando quest’ultimo aveva oramai pagato con la vita, solo perché gliel’aveva promesso...
Lo stile narrativo è asciutto ma potente, cadenzato ma estremamente affascinante; è chiaramente hemingwayano.
McCarthy descrive in modo dettagliatissimo e meticoloso ogni singola azione, piu che i paesaggi o le persone:
Lui strappò con i denti l’angolo di una bustina di maionese, ne spremette il contenuto sopra il cheeseburger e allungò la mano a prendere il ketchup.
Una particolarità, tipica dello stile di McCarthy, sono i dialoghi (già di loro estremamente rapidi) inframezzati al racconto, senza virgolette, per conferire ulteriore velocità.
Il risultato complessivo dà la sensazione di leggere un testo pronto per una immediata trasposizione cinematografica.
I fratelli Coen, che da questo libro hanno tratto l'omonimo film vincitore di quattro premi Oscar (tra cui, guarda caso, quello per la miglior sceneggiatura non originale), non hanno poi fatto questo grande sforzo per trarne la sceneggiatura.
Altro aspetto stilisticamente originale del romanzo, come già detto, è l’alternanza di capitoli di narrativa ad altri che contengono esclusivamente gli agrodolci monologhi interiori dello sceriffo Bell.
Un personaggio potentissimo, pur nella sua pacatezza, che si accomiata dalla sua professione con un’amara e profonda sensazione di sconfitta:
Quando uscì dal tribunale per l’ultima volta era una giornata fredda e tempestosa. Ci sono uomini che sono capaci di abbracciare una donna che piange, ma a lui non era mai venuto naturale. Scese le scale, uscì dalla porta sul retro, salì sul suo pick-up e rimase lì. Non sapeva dare un nome a quella sensazione. Era tristezza, ma c’era anche qualcos’altro. Ed era quel qualcos’altro che lo faceva restare lì seduto invece di accendere il motore. Si era già sentito così prima di allora ma era passato tanto tempo dall’ultima volta, e quando se lo disse capì che cos’era. Era la sconfitta. Era la sensazione di essere stato battuto. Una sensazione più amara della morte."

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