17 agosto 2014

Il metro del Mondo, di Denis Guedj

Il metro del Mondo (Le Mètre du Monde), di Denis Guedj

Anno di pubblicazione: 2000

Edito da: Longanesi, Tea

Voto: 6/10

Pagg.: 331 (nell'edizione Tea)

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È curioso come in pochi conoscano le origini di tutte (o quasi) quelle cose che fanno parte della nostra quotidianità. Quelle cose con cui abbiamo una familiarità che sembra quasi innata.
È il caso, ad esempio, del metro, l’unità di misura delle distanze e delle dimensioni, che fa parte del nostro bagaglio di conoscenze senza che su di essa ci si soffermi mai a riflettere, se non in quelle occasioni in cui, viaggiando e scoprendo quei pochi Paesi (gli Stati Uniti in particolare) che adottano unità di misura differenti, la sua universalità (e la sua familiarità) viene messa in discussione.
Ne “Il metro del mondo” il franco-algerino Denis Guedj, dopo il successo planetario de “Il teorema del pappagallo”, racconta proprio la storia dell’unità di misura utilizzata dalla larghissima maggioranza degli Stati per le distanze e le dimensioni lineari. Una storia che si svolge quasi interamente in territorio francese, sul finire del Settecento, anche se l’idea di un’unificazione delle misure e dei pesi era già stata avanzata ben prima e non soltanto in Francia.
Proprio nella Francia dell’Ancien Regime si è andata consolidando una situazione che al giorno d’oggi non può che apparire assurda, delirante: la presenza sul territorio di un singolo Stato di oltre 2.000 diverse tipologie di pesi e misure. Una pessima abitudine fomentata, in primis, dal mondo del commercio:
La legna da ardere era venduta a corde, il carbone di legna a carrate, il carbon fossile a carra, l’ocra a botti, e il legname per carpenteria al marco o alla solive. Si vendevano i frutti di cedro alla poinçonnée, il sale al moggio, al sestario, a mine, a mezze mine, a staia, a once; la calce si vendeva al poinçon, e i minerali alla raziera. Si comprava la vena a profenda e il gesso a sacchi; il vino a pinta, a mezza pinta, a caraffa, a roquille, a boccale e a mazzetta. L’acquavite si vendeva a brente, il grano a moggi e a salme. Le stoffe, i tappeti e la tappezzeria si compravano ad aune; boschi e prati venivano misurati in pertiche, i vigneti in daurées. L’arpento valeva dodici hommées, misura che indicava una giornata di lavoro di un uomo; altrettanto valeva per l’ouvrée. Gli speziali pesavano in libbre, once, dramme e scrupoli”.
Una quantità spropositata di misure e pesi diversi per misurare e pesare cose simili (liquidi, stoffe).
Ad acuire le difficoltà, si aggiungeva il fatto dell’utilizzo, per multipli e sottomultipli, di un sistema non decimale: “…la libbra valeva dodici once, l’oncia otto dramme, la dramma tre scrupoli, e lo scrupolo venti grani.
Il tutto a scapito dei cittadini meno colti e informati, che venivano spesso raggirati.
Ma l’assurdità del sistema non finiva qui: le misure e i pesi, anche quelli con lo stesso nome, erano infatti differenti da una regione all’altra, se non addirittura da un paese all’altro!
Più di duecento differenti libbre! Soltanto nella regione d’Angouleme si contano più moggi che comuni! E decine di aune, e di leghe… Quella della Piccardia vale… più o meno… se la esprimiamo con le attuali unità di misura, 4,444 km.; quella di Touraine 3,933 km., quella della Bretagna 4,581 km., quella della Provenza 5,849 km. mentre quella di Parigi 4,180 km.”.
Retaggio di un passato feudale in cui ogni signorotto decideva quali fossero le misure e i pesi sul proprio territorio (e quanto dovessero pesare/misurare), la situazione è indubbiamente scappata di mano.
C’era anche una ragione per così dire “politica” di queste diversità. Le misure e i pesi erano così ballerini perché i signorotti locali le modificavano a loro piacimento soprattutto per questioni di esazione dei tributi: anziché aumentare le imposte e i tributi, si poteva agire sulle unità di peso e di misura per dare meno nell’occhio.
Una situazione che non poteva reggere a lungo.
Da più parti si chiedeva un’uniformazione del sistema di pesi e misure e diversi sovrani ci avevano invero pensato, lasciando però spesso cadere a metà progetti ben avviati.
Quando nel 1788 Luigi XVI convoca gli Stati Generali per scongiurare la rivoluzione, richiede che i cittadini compilino degli elenchi di doglianze e lamentele.
È nei cahiers de doléances che il popolo, tra le altre cose, inizia a lamentare con forza queste disparità e queste assurdità che intaccano la vita di tutti i giorni: “non ci siano nel regno due pesi e due misure” e l’appello che si leva da più parti, con formula che diventerà famosa anche per significare, in generale, disparità e disuguaglianza di trattamento.
Proprio mentre scoppia in Francia la rivoluzione, si comincia a ragionare seriamente di un’uniformazione nazionale di pesi e misure.
L’auspicio sarebbe, invero, che l’uniformazione fosse addirittura internazionale: un’universalizzazione.
Ma il veto opposto dall’Inghilterra ad una collaborazione, anche soltanto a scopi scientifici, con un popolo che si sta dimostrando così violento e riottoso, fa svanire una tale ambizione.
O forse no: la Francia può sempre ambire a che il suo lavoro venga adottato anche in altri Paesi. Per fare ciò occorre che esso sia scrupoloso e che abbia anche solo una parvenza di internazionalità.
Sarà la prima grande impresa scientifica della Francia repubblicana!
Sicuramente non si possono utilizzare misure vecchie, locali, da estendere al resto del Paese. Occorre qualcosa di nuovo.
Per decidere lo strumento da cui trarre la futura unità di misura della distanza e delle dimensioni lineari il dubbio è tra:
- il pendolo (allora strumento scientifico di primaria importanza) e in particolare la lunghezza del pendolo che oscilla nel tempo di un secondo alla latitudine di 45°, che guarda caso passa (anche) in territorio francese;
- oppure, qualcosa di più universale (che non comporti il problema della latitudine, che non verrebbe mai accettato, ad esempio, dall’Inghilterra): le dimensioni del Pianeta.
Inutile dire che occorre virare su questa seconda scelta, se veramente si ambisce all’internazionalità: “A tutti gli uomini, per tutti i tempi” diceva Condorcet, uno dei padri di questa impresa.
Venne dunque deciso che la nuova unità di misura, il metro (parola che deriva dal termine greco che significa “misura”), doveva essere una frazione della misura terrestre e in particolare del meridiano, l’unico strumento geografico presente in qualunque parte del Mondo.
Oltre all’ambita universalità, non secondario è l’aspetto romantico della vicenda: “c’è un certo piacere per un padre di famiglia poter dire:  <Il campo che dà sostentamento ai miei figli è una determinata porzione del globo. Facendo le debite proporzioni, sono coproprietario del Mondo!>”.
Occorre però misurare il meridiano o, meglio, una frazione di esso, per poter giungere alla lunghezza del metro, che sarà, come si è deciso, la decimilionesima parte del quarto di meridiano (ossia la frazione del meridiano che va dall’equatore a uno dei due poli).
Quest’operazione, che per il vero era già stata compiuta varie volte in passato (ad esempio dall’astronomo Cassini), verrà rifatta ex novo, per renderla perfetta e inattaccabile, e sarà affidata a due illustri accademici: Delambre e Mechain.
Il loro compito sarà quello di misurare la lunghezza del meridiano che va da Dunkerque a Barcellona (che si trova in Spagna, così non si potrà tacciare di eccessivo nazionalismo i francesi, pensano all’Accademia).
Lo porteranno a termine con un errore (calcolato con gli strumenti decisamente più all’avanguardia del 1980) di neanche 10 metri (su oltre 1.000 km!).
Un’operazione immane e lunghissima (durerà oltre cinque anni), compiuta attraverso uno strumento matematico suggestivo: quello delle triangolazioni. Anziché misurare semplicemente, dritto per dritto, come penserebbero i più, si creano volta per volta degli enormi triangoli (fittizi) di territorio, all’interno dei quali passa la linea che si intende misurare e ognuno dei quali è collegato con il successivo da almeno due vertici. Dopodichè con metodo trigonometrico si ricavano, a monte, le distanze.


Un’opera titanica, compiuta peraltro nel generale clima di diffidenza e sospetto della rivoluzione e delle guerre delle potenze europee contro la neonata Repubblica francese: le torri e in generale le opere sopraelevate che Delambre e Mechain costruivano quando non potevano utilizzare campanili o cime di montagne, venivano ritenute, dai sospettosi (e superstiziosi) contadini, nel pieno del terrore rivoluzionario, nuove tipologie di ghigliottine se non addirittura opere che catalizzavano sciagure, anche climatiche.
In ogni caso, erano da buttare giù ad ogni costo, e a stento le autorità locali (le quali, a loro volta, non erano del tutto convinte) riuscivano a sedare le rivolte e i propositi di distruzione.
C’erano addirittura parroci che rifiutavano di consentire la salita ai campanili.
In generale, moltissime difficoltà. Tra cui una sospensione dei lavori imposta da Parigi, quando Delambre era finito per essere considerato nemico della Repubblica, nel generale clima di ghigliottinatori che ghigliottinavano coloro che avevano ghigliottinato.
L’operazione durò moltissimo, come detto, e nel frattempo venne varato un metro provvisorio (che poi si rivelerà di lunghezza trascurabilmente superiore a quello definitivo, tanto da non comportare la sostituzione dei vari campioni inviati in giro per il Paese).
Passano gli anni e passano gli uomini al potere: girondini, giacobini, montagnardi (con le ghigliottine che lavorano a tempo pieno)… il direttorio… per giungere a Napoleone. Poco prima del colpo di Stato del 18 brumaio viene varato il metro definitivo (siamo sul finire del 1799).
Non prima però di essere stato verificato e approvato da una commissione “internazionale” (composta principalmente dai Paesi alleati e dalle Repubbliche italiane derivanti dalle campagne napoleoniche), così da mantenere alta e fondata l’ambizione di universalità.
Dal metro discenderanno le altre unità di misura: quella del volume, il litro, corrispondente al cubo di un decimetro; e quella del peso, il chilogrammo, corrispondente al peso di un litro d’acqua distillata alla temperatura di 4 gradi (ossia la temperatura a cui l’acqua raggiunge la massima densità).
Con il metro si adotterà il sistema decimale (che invano si era sconsideratamente cercato di estendere anche al tempo), con prefissi derivanti dal greco e dal latino (milli, centi, deci, deca…) che formavano un sistema tanto semplice quanto inviso alla popolazione, da sempre riottosa a così importanti cambiamenti nella vita di tutti i giorni.
In verità, l’applicazione definitiva dei nuovi pesi e misure avverrà soltanto più tardi (sul finire della prima metà dell’Ottocento), essendo stati in periodo napoleonico ripristinati, per compiacere la popolazione, le vecchie unità di misura, cosiddette “usuali” (tesa, piede, ecc.), inizialmente affiancate e poi sostituite a quelle nuove, ufficialmente adottate poco tempo prima.
Il metro è utilizzato tutt’ora, come ben sappiamo, anche se la definizione ufficiale del “decimilionesimo del quarto di meridiano” è stata di recente sostituita da una scientificamente più rigorosa: lo spazio che copre la luce in una data frazione di secondo. Dopo aver bocciato il pendolo, ecco che, a distanza di due secoli, siamo paradossalmente tornati alla misura dello spazio attraverso il tempo!
La forma scelta da Guedj è quella di un “saggio narrativo”, ricco di citazioni da documenti dell’epoca, ma che cerca di non perdere la fluidità narrativa tipica dei racconti.
L’Autore aveva già affrontato il tema in un precedente libro, “Il Meridiano”, il quale, a leggerne la trama, narra più o meno le stesse vicende, e che probabilmente è stato riformulato stilisticamente per venire incontro al pubblico (e al successo) de “Il teorema del pappagallo”, con qualche aggiunta.
Se il tema di fondo è davvero molto interessante, anche e soprattutto perché continuamente influenzato dai turbolenti eventi storici di quei tempi (che vengono sapientemente accennati qua e là), non si può però dire che l’operazione, da un punto di vista letterario, sia pienamente riuscita: libro troppo lungo per quello che doveva dire, con forse troppe ripetizioni, e con l’attenzione che immancabilmente finisce per calare; frasi nominali, in stile giornalistico, inserite in modo ridondante.
Tutto sommato, dunque, una lettura interessante, ma non stilisticamente compiuta: non è asettico come un saggio, ma non coinvolge come un’opera di narrativa. A questo punto era meglio non sfornare questa sorta di ibrido, anche se, probabilmente, per un pubblico più giovane la formula può risultare efficace.

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