19 novembre 2014

Pastorale americana, di Philip Roth

Pastorale americana (American Pastoral), di Philip Roth

Anno di prima pubblicazione: 1997

Edito da: Einaudi

Voto: 9/10

Pagg.: 458

Traduttore: Vincenzo Mantovani

___

Pastorale americana descrive l’ineluttabilità del crollo del mito dell’American Dream, dinanzi a una Storia che avanza inesorabile, mietendo le proprie vittime secondo un diabolico schema arbitrario e casuale.
O forse no?

O forse il caso non c’entra nulla ed è ancora una volta il determinismo a nutrirsi dei lustrini e delle apparenze, andando a colpire implacabilmente là dove tutto sembrava perfetto, là dove il successo sembrava aver dipanato la strada verso la felicità.
Il bello di questo straordinario romanzo di Philip Roth è che non c’è una risposta, ma solo un inquietante interrogativo.
È tutta colpa del caso? Oppure è la stessa ricerca della felicità, la fiducia che si pone in essa, a preparare la strada verso il baratro?

Tre generazioni. Tutte avevano fatto dei passi avanti. Quella che aveva lavorato. Quella che aveva risparmiato. Quella che aveva sfondato. Tre generazioni innamorate dell’America. Tre generazioni che volevano integrarsi con la gente che vi avevano trovato. E ora, con la quarta, tutto era finito in niente. La completa vandalizzazione del loro mondo.

La storia di Seymour Levov, detto “lo Svedese”, uno dei personaggi più interessanti e meglio caratterizzati della fine del Novecento, è la storia dell’illusorio apparente compimento del Sogno Americano.
Un ragazzo statuario e affascinante, un campione in tutti gli sport in cui si cimenta. Un mito per i ragazzi della sua generazione e per le loro famiglie. Un ebreo con tratti spiccatamente ariani che sembra sconvolgere le stesse ragioni di quella guerra che intanto sta infuriando in Europa.
Lo Svedese si arruola nei marines (e come potrebbe essere diversamente?), per cercare la gloria anche sui campi di combattimento, dopo averla già ampiamente consolidata sui campi sportivi.
Quel Seymour Levov che si prepara a guidare la fabbrica di guanti di Newark, subentrando al padre, il mitico Lou Levov, che ha creato una prolifera industria praticamente dal nulla.
Quello Svedese che si appresta a sposare la bellissima Dawn, Miss New Jersey 1949. Irlandese cattolica, ma accettata, con qualche compromesso, dalla sua famiglia di religione ebraica.
Una figlia, Merry, che passa la sua infanzia circondata dall’amore dei genitori.
Merry soffre di balbuzie, un lieve difetto che non sembra intaccare più di tanto la felicità di una famiglia che pensa di poter superare quel problema. Ci vorrà solo del tempo.
Tutto sembra meraviglioso e sereno in quel quadretto familiare. La vita dello Svedese sembra un’autostrada verso il successo e la beatitudine in terra.
La fabbrica di guanti va alla grande, nonostante inizino ad intravedersi all’orizzonte i primi sintomi di una globalizzazione che renderà ancora più aspra la concorrenza.
Dawn cerca di affrancarsi dal ruolo di frivola ex reginetta di bellezza mettendo su un allevamento di bovini presso la loro tenuta.
Tutto sembra procedere splendidamente nella vita di quella famigliola ebraico-cattolica del New Jersey, fino a quando esplode inesorabile un conflitto drammatico con la figlia Merry, ormai divenuta adolescente.
Quella figlia che osteggia con forza la guerra in Vietnam di Lyndon Johnson, decide di portare la guerra in casa.
Fomentata da compagnie estremiste nel suo aggressivo ideale anti-capitalista.
Indebolita nel carattere da quel difetto mai superato, nonché da un’inconscia sindrome di inferiorità rispetto a quei genitori perfetti, che la amano nonostante lei li ripaghi con astio e brutalità.
Per lei essere americani significava aborrire l’America, mentre amare l’America era una cosa di cui lo Svedese non avrebbe potuto fare a meno, non più di quanto avrebbe potuto smettere di amare suo padre e sua madre, non più di quanto avrebbe potuto rinunciare alla propria dignità. Come poteva, Merry, odiare questo paese quando di questo paese non aveva la minima idea? Come poteva, uno dei suoi figli, essere così cieco da insultare lo “schifoso sistema” che aveva dato alla sua famiglia tutte le possibilità di affermarsi? Offendere i genitori “capitalisti” come se la loro ricchezza fosse frutto di qualcosa di diverso dall’incondizionato industriarsi di tre generazioni. Uomini di tre generazioni, lui compreso, che se l’erano sfangata nella melma e nella puzza di una conceria. La famiglia che aveva cominciato in conceria, fianco a fianco con i più umili tra gli umili, diventata ora per lei un branco di “cani capitalisti”. Non c’era molta differenza, e lei lo sapeva, tra odiare l’America e odiare loro. Lui amava l’America che lei odiava e incolpava delle ingiustizie della vita e voleva rovesciare, amava i “valori borghesi” che lei odiava e metteva in ridicolo e voleva sovvertire, amava la madre che lei odiava e aveva quasi assassinato facendo ciò che aveva fatto.
Merry, appena sedicenne, supera il punto di non ritorno quando estremizza la sua già violenta protesta mettendo una bomba allo spaccio del paese, provocando la morte di una persona.
Da quel momento il mondo dello Svedese inizia a precipitare, senza che si intraveda il fondo che possa fermarne la caduta.
Una relazione extraconiugale, mentre la moglie combatte con la depressione.
La moglie che a sua volta comincia a tradirlo.
Una vecchia amica di Merry che si fa avanti per ricattarlo cinicamente, fregandosene del suo dramma, facendogli credere che lei sa dove si trova sua figlia.
La vita dello Svedese sprofonda nell’abisso quando, dopo cinque anni, ritrova Merry, la quale gli confessa di aver ucciso altre tre persone, con un’altra bomba fatta esplodere mentre era latitante.
Una figlia che ritrova in condizioni pietose, dopo che ha deciso di aderire ad una dottrina religiosa fondamentalista che fa dell’annientamento della persona il suo fine ultimo: è ridotta ad uno scheletro perché non mangia quasi nulla; non si lava più, nella sua fanatica intenzione di preservare ogni forma di vita, per non uccidere i microorganismi; gira con il volto mascherato da un calzino.
Era incomprensibile, non soltanto come Merry potesse abitare in quel tugurio come un paria, non soltanto come Merry potesse essere una latitante ricercata per omicidio, ma come lui e Dawn avessero potuto essere all’origine di tutto.
Ma soprattutto, lo Svedese scopre che sua figlia è stata violentata più volte, durante la sua latitanza.
L’uomo smania sempre più di far qualcosa proprio quando non gli resta più niente da fare.
È il dramma personale, che raggiunge l’apice:
Ecco come si era sviluppata la loro vita: lei viveva a Newark senza niente, lui viveva a Old Rimrock con tutto tranne lei. Anche questo era colpa del suo successo?”.
Lo Svedese combatte, ma ormai è un uomo spento.

Pastorale americana è un monumento innalzato alle insidie del Tempo, ai contrasti generazionali, ma non solo.
È un inno alla complessità della vita tramite la rappresentazione di un quadretto familiare in sfacelo, nonostante la cornice dorata da cui è agghindato.

Il romanzo è diviso in tre parti.
Nella prima, “Paradiso ricordato”, Roth presenta il personaggio dello Svedese, nella sua ammirata e invidiata giovinezza di successi e splendore. Il racconto della saga familiare dei Levov viene portato avanti con l’espediente metanarrativo dello scrittore Nathan Zuckerman, alter ego dell’Autore, già protagonista di diversi suoi romanzi.
Il giovane Zuckerman frequenta lo stesso liceo dello Svedese e anche lui è tra quelli che lo idolatrano, con la fortuna di poterlo conoscere di persona, essendo amico del fratello Jerry.
Nathan, diventato scrittore, ritrova lo Svedese circa quarant’anni dopo, quando lui lo riconosce e lo chiama con quel nomignolo, Skip, affibbiatogli ai tempi del liceo.
Lo Svedese lo cerca poi nuovamente dieci anni dopo, volendogli apparentemente chiedere di scrivere qualcosa in memoria di suo padre, scomparso da poco.
Ma Nathan, che dopo poco tempo viene a sapere da Jerry che anche lo Svedese è passato a miglior vita, decide di narrare l’ascesa e la caduta di quest’ultimo.
Inizia dunque il racconto vero e proprio della vita dei Levov, che culmina nella meravigliosa seconda parte, “La caduta”.
“La caduta” è il capolavoro nel capolavoro. È la parte in cui la prosa di Roth, sempre eccellente in tutto il libro, raggiunge livelli estasianti.
Una scrittura talmente avvolgente, una prosa talmente bella e potente, che l’aspetto dei contenuti e dei possibili insegnamenti rischia quasi di passare in secondo piano.
Una prosa suadente, inebriante, senza la necessità di inutili orpelli stilistici; una prosa che penetra in profondità nella mente.
È poesia senza essere poesia, senza nessuna cadenza ritmica.
Anche se, in qualche caso, una certa licenza Roth se la concede:
Questa si chiama lustrina e quello si chiama palizzone e tu ti chiami dolcezza e io mi chiamo papino e questo si chiama vivere e l’altro si chiama morire e questa si chiama follia e questo si chiama piangere qualcuno che è morto e questo si chiama inferno, inferno puro e semplice, e devi essergli molto legato per resistere, questo si chiama sforzarsi-di-tirare-avanti-come-se-niente-fosse e questo si chiama pagare-il-prezzo-intero-ma-perché-in-nome-di-Dio?, questo si chiama vorrei-essere-morto-e-vorrei-trovarla-e-ucciderla-e-salvarla-da-tutto-quello-che-starà-passando-ovunque-sia-in-questo-momento, questo sfogo incontrollabile si chiama cancellare-tutto, e non funziona, sto perdendo la testa, troppo grande è la forza devastante di quella bomba…

È una scrittura che incute soggezione intellettuale. Viene da pensare: questo libro è più grande di me.
Una sensazione che, prima d’ora, credo di aver provato soltanto con Dostoevskij, e autori di quel calibro.
Il paragone non sembra esagerato, né per la forma né per i contenuti, che hanno molto del grande Autore russo. È una scrittura diversa, più verbosa e cerebrale, ma capace di restituire quell’impressione, seppure ribaltata in un’altra epoca e in un altro luogo.
L’intreccio si muove avanti e indietro nel tempo, incrociando di continuo passato e presente e sfociando nella terza parte, “Paradiso perduto”.
Ecco, la terza parte - se proprio si deve trovare un difetto a questo libro - denota una certa stanchezza, che potrebbe apparire come pesantezza stilistica, come vana ridondanza, ma che d’altro canto aiuta a calarsi in prima persona nel calvario dello Svedese.
“Paradiso perduto” è uno showdown, una resa dei conti occupata in buona parte dalla conversazione nel salotto di casa Levov, dove si affrontano, in modo surreale, i personaggi più disparati, mentre si sta consumando il dramma umano dello Svedese, che ha appena rivisto, dopo cinque anni, la figlia Merry in quelle condizioni a dir poco pietose.
Una terza parte coronata da un finale inatteso, un climax banalmente drammatico e alquanto destabilizzante.
Un libro profondissimo che si conclude con una apparentemente sciocca “tragedia” domestica, giusto per aggravare il senso di estraniazione verso lo squilibrato arbitrio degli eventi.

Con Pastorale Americana, Roth si aggiudicò il Pulitzer per la narrativa del 1998.
È sicuramente uno dei suoi romanzi più importanti e riusciti, uno di quelli che da solo potrebbe giustificare il Nobel per la letteratura di cui da tanto tempo si parla, ma che puntualmente non arriva.
È un romanzo dove molti sono gli spunti autobiografici, non soltanto quelli legati alla breve parte in cui compare Zuckerman: lo stesso personaggio dello Svedese è basato su una figura realmente esistita.
Con Pastorale Americana si chiude senza rimpianti e in modo assolutamente dignitoso un Secolo, il Novecento, che ha visto il trionfo del romanzo psicologico quale strumento narrativo capace di scavare in profondità nei meandri della mente umana.

Nessun commento: