27 marzo 2015

Apologia di Socrate, di Platone

Apologia di Socrate, di Platone

Anno di probabile scrittura: 395 a.C. circa

Edito da: Bompiani, Laterza, Einaudi, Newton & Compton

Voto: 9/10

Pagg.: 187 (nell'edizione Bompiani)

Traduttore: Gino Giardini (nell'edizione Newton & Compton)

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L'apologia di Socrate è ritenuta la prima opera scritta da Platone e giunta sino ai giorni nostri.
È un dialogo giovanile che racconta l’autodifesa di Socrate al processo intentato nei suoi confronti per empietà e corruzione di giovani.

Nella Prima Tetralogia, quella dei dialoghi propriamente socratici, si colloca subito dopo l’Eutifrone (scritto successivamente ma che riguarda fatti precedenti al processo, vedi qui) e prima del Critone e del Fedone (che riguardano, rispettivamente, la detenzione e la morte di Socrate).
Proprio perché scritto nella giovinezza, è ritenuto una fonte storicamente attendibile sul processo a Socrate: il giovane Platone era ancora influenzato dagli insegnamenti del Maestro e il ricordo di quegli avvenimenti era ancora ben vivo in Atene, tanto che se il filosofo avesse distorto qualche episodio o i contenuti dell'orazione, la sua credibilità ne avrebbe sicuramente risentito.
In quanto dialogo giovanile, inoltre, non hanno ingresso le teorie filosofiche di Platone, le quali verranno sviluppate soltanto più avanti.
Socrate, come noto, non lasciò alcuna opera scritta, in quanto, secondo il suo pensiero, l’unica forma di espressione valida per la filosofia era quella orale del dibattito, unico strumento capace di trasformare la filosofia in continua ricerca, tramite domande e risposte. I libri, in quanto materia inerte, potevano dare soltanto una falsa idea di conoscenza.
Per tramandare le idee del Maestro, senza tuttavia contraddire questa sua avversione per l’opera letteraria, Platone concepì l'utilizzo per i suoi scritti dello strumento del dialogo, l’unico in grado di introdurre il dibattito all’interno dell’opera scritta.
Eppure l’Apologia di Socrate, a differenza degli altri scritti platonici, è più un monologo che un dialogo.
Se si eccettua un brevissimo scambio di battute con l’accusatore Meleto, esso contiene infatti esclusivamente l’esposizione dell’autodifesa di Socrate davanti ai 501 giudici eletti tra i cittadini di Atene.
Ciò  nonostante, la struttura del dialogo viene comunque preservata mediante l’artifizio di interlocutori fittizi.

Nell’analizzare le arringhe dei suoi accusatori (Meleto, Anito e Licone), che hanno appena parlato, Socrate fa ricorso all’ironia: gli accusatori sono oratori talmente capaci che quasi lo hanno convinto della sua colpevolezza, salvo poi affermare che tutto ciò che dicono è falso.
Cosa abbiate provato voi, cittadini Ateniesi alle asserzioni dei miei accusatori, io non so dire. È ben vero che anch’io, sotto la spinta del loro argomentare, giunsi per un poco a dimenticarmi di me stesso, tale era la forza di persuasione con cui parlavano; quanto alla verità tuttavia, per così dire, essi non dissero un bel nulla.

Socrate informa fin da subito i giudici che gli addebiti che gli vengono mossi dagli accusatori di oggi si riferiscono in realtà ad accuse più risalenti e radicate, ben rappresentate nella commedia di Aristofane Le nuvole, in cui Socrate era descritto come un uomo che insegna ai giovani dottrine empie, quali quelle che affermano che gli astri sono pietre anziché divinità (teorie che invece erano di Anassagora e che Socrate avversava). Socrate nega il fatto di farsi pagare per le sue lezioni (offrendo in prova “la mia povertà”), cosa che fanno invece i sofisti, contro i quali si scaglia. Nega, in generale, di insegnare alcunché: Socrate sa di non sapere nulla e quindi cosa dovrebbe insegnare?
A tal proposito Socrate cita l’episodio del suo amico Chere­fonte, il quale aveva domandato all’oracolo di Delfi se vi fosse un uomo più sapiente di Socrate, ottenendo risposta negativa.
Ma Socrate, che era consapevole della propria ignoranza, era rimasto perplesso da questa risposta e aveva interrogato alcune categorie di persone ritenute sapienti (poeti e artisti) per cercare di comprendere il responso dell’oracolo. Socrate si era accorto che questi presunti sapienti, in realtà, ignoravano la propria ignoranza: essi infatti, per il fatto di conoscere la poesia o determinate arti si ritenevano sapienti anche in altri ambiti del quale, invece, non conoscevano nulla.
Ecco dunque il significato del responso della Pizia: Socrate era il più sapiente di tutti gli uomini perché era consapevole della propria ignoranza; il che implicava, però, che la vera sapienza non fosse raggiungibile dall’uomo, essendo una prerogativa esclusivamente divina.
Da tale episodio era derivato l’odio nei confronti di Socrate da parte delle categorie che si sentivano sbeffeggiate e che adesso trovavano la loro rivincita nelle accuse di Meleto, Anito e Licone, che li rappresentavano idealmente.
Socrate, dicevano, aveva insegnato ai giovani a smascherare l’ignoranza dei sapienti ed ora alcuni di essi si dilettavano a farlo in modo del tutto irrispettoso.
I suoi accusatori rappresentano dunque soltanto la longa manu di questo odio, come afferma Socrate prevedendo profeticamente l’esito del processo:
nei miei confronti è sorto molto odio e da parte di molti, voi ben sapete che è vero: ed è proprio questo che mi condanna, se pur ci sarà condanna, non Meleto e neppure Anito, ma le calunnie della gente e l’odio.

Passando alle accuse di Meleto, Socrate le smonta una ad una, partendo da quella che lo vorrebbe corruttore di giovani. Socrate dimostra che non può corrompere i giovani o che se lo facesse sarebbe in modo del tutto involontario e dunque non meritevole di pena.
Viene confutata anche l’accusa di non adorare gli dei della polis: è lo stesso Meleto a riportare che Socrate si ritiene assistito da una sorta di demone, una guida divina. Ma tale demone è esso stesso una forma di divinità e pertanto è ridicolo imputare a Socrate una sorta di ateismo:
io ho in me una sorta di spirito divino e demoniaco, quello di cui anche Meleto, ridendoci sopra, ha scritto nella sua accusa.

Nel finale della sua autodifesa, Socrate, in un impeto di coerenza che tuttavia gli potrebbe attirare qualche malumore da parte dei giudici, afferma di non temere la morte:
temere la morte altro non è che credere di essere sapiente e non esserlo, perché è credere di sapere ciò che non si sa. Del resto nessuno sa se essa non sia, forse, il più grande di tutti i beni per l’uomo, ma la temono come se ben sapessero che essa è il più grande di tutti i mali.
Con la condanna a morte, a subire un torto non sarà la persona di Socrate, bensì la verità:
Sappiate bene che se condannate a morte me, tale quale io sostengo di essere, non farete a me un male maggiore di quanto non facciate a voi stessi.
La giustizia è un valore assoluto, che per Socrate merita di essere preservata anche a costo della vita:
sappiate che, davanti al giusto, io non mi arrenderei a nessuno per paura della morte, e che, per non cedere, sono disposto anche a morire.
non a parole, ma a fatti, dimostrai che a me della morte, se non è troppo volgare dirlo, non importa un bel niente, mentre il non commettere ingiustizia o empietà, questo sì che mi importa e parecchio.
Socrate ha dunque confutato con la forza della logica le accuse che gli venivano rivolte. Eppure, più che di ciò, sembra sempre preoccuparsi di preservare la propria integrità e la propria coerenza.

Socrate ricorda nella sua difesa quegli imputati che per ottenere compassione dai giudici non hanno esitato a sciogliersi in lacrime o a far entrare in tribunale figli, parenti e amici, “mentre io invece non farò nulla di tutto questo, benché mi esponga in questo processo, come sembra, all’estremo pericolo. (…) tre ne ho di figli, uno ormai ragazzo e due bambini. Tuttavia io, non ne ho condotto neppure uno qua, e non vi supplicherò di assolvermi. E perché non faccio nulla di questo? Non per fare l’orgoglioso, Ateniesi, e neppure per disprezzo verso di voi; poi, se io ho un atteggiamento coraggioso di fronte alla morte o no, altro è il discorso; ma per il buon nome mio, vostro, e di tutta la città, non mi sembra bello che io faccia alcuna di queste cose, giunto a questa età e pure avendo questa reputazione : vera o falsa che sia , sembra pure assodato che Socrate si distingua dalla maggior parte degli uomini.

Viene pronunciato il verdetto, che è di condanna a morte. Un verdetto che sembra non sorprendere Socrate, il quale è invece sorpreso dall’esiguo scarto di voti tra chi vuole condannare e chi no.
Che io non sia turbato, o Ateniesi, per quanto è avvenuto, cioè per il fatto che voi mi avete condannato, accade per molte e diverse motivazioni , e questa tra le prime: che quanto è avvenuto non mi è giunto inaspettato; ma molto di più mi sorprende il numero dei voti, come è uscito, dall’una e dall’altra parte. Non ritenevo infatti che la differenza sarebbe stata così piccola, ma molto più grande.

Al condannato, come d’uso in questi casi, viene lasciata la possibilità di commutare la propria pena.
Eppure Socrate, con scelta che finirà per indispettire i giudici, non intende fuggire alla morte e non intende commutare la sua pena.
Anzi, in modo apparentemente provocatorio avanza la proposta di un premio per i servizi resi alla città di Atene. Del resto lui sa di non essere colpevole di nulla.
Chiede dunque di essere mantenuto a spese pubbliche nel Pritaneo, l’edificio che ospitava il primo magistrato della polis, nonché i vincitori dei giochi olimpici.
 Ed io quale pena devo pure richiedere a mia volta? Non è forse chiaro che chiederò quella per i miei meriti? (…)
Cosa merito dunque di patire io, se sono così? Un premio, Ateniesi, se mi si deve far pagare realmente secondo il mio merito. E questo premio deve pur essere confacente a me. E quale premio può convenirsi a un uomo povero e benefattore vostro che invoca soltanto di avere la possibilità di istruirvi? E non c’è premio che più si convenga, cittadini Ateniesi, per un tal uomo, che essere mantenuto nel Pritaneo”.
Vaglia anche, scartandole, le altre proposte di pena restrittiva (l’esilio, il carcere) e di pena pecuniaria, proponendo, ancora una volta in maniera avvertita come provocatoria dai giudici, una somma di denaro irrisoria, considerata la sua povertà.
Alla nuova votazione, lo scarto di voti non potrà che aumentare, come infatti avviene.

Dopo la seconda votazione, Socrate rinfaccia il verdetto ai giudici, che mandano a morte un uomo ormai anziano (settant’anni) e che di lì a poco sarebbe probabilmente morto per cause naturali.
Invece, con tale condanna Atene sarà ricordata per aver ucciso Socrate:
voi avrete nome e colpa da parte di coloro che vogliono offendere la città, di avere ucciso Socrate, uomo sa­piente”.
Ma Socrate si sente in pace con se stesso. Sa che la verità è dalla sua parte:
E ora io me ne vado a pagare il mio debito, condannato a morte da voi, ed essi se ne andranno a pagare il loro, di nefandezza e di iniquità, condannati dalla verità.

Sul finire della sua orazione, Socrate chiede agli ateniesi che continuino la sua opera educativa nei confronti dei suoi figli, così come egli aveva fatto con i suoi concittadini:
i miei figlioli, quando saranno cresciuti, rimproverateli , uomini, angustiandoli allo stesso modo con cui vi angustiavo io, se riterrete che si prendono cura delle ricchezze e di altro prima che della virtù, e se vorranno sembrare chissà chi pur non essendo nulla, fate che si vergognino, come io facevo con voi, perché non curano le cose che dovrebbero curare”.

Il dialogo si conclude con un bellissimo finale:
Ma è ora, ormai, di andare, io a mo­rire, voi a vivere: ed è ignoto a tutti, tranne che al dio, chi fra noi vada verso la sorte migliore.

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