Anno di probabile scrittura: 390 a.C. circa
Edito da: Rizzoli, Bompiani, Einaudi, Newton & Compton
Voto: 8,5/10
Pagg.: 109 (nell'edizione Rizzoli)
Traduttore: Gino Giardini (nell'edizione Newton & Compton)
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L'Eutifrone (o Sulla santità) è il primo dei dialoghi platonici che compongono quella che venne convenzionalmente indicata, fin dagli editori dell’antichità, come la Prima Tetralogia (comprendente i dialoghi propriamente socratici, ossia, oltre all’Eutifrone, l’Apologia di Socrate, il Critone e il Fedone, che riguardano, rispettivamente, l’accusa, il processo, la detenzione e la morte di Socrate).
Non è tuttavia il primo dei dialoghi scritti da Platone, sebbene sia considerato tra i dialoghi cosiddetti giovanili del filosofo.
L’Eutifrone è un'opera che tratta, con le opportune astrazioni, il tema della giustizia, per quanto in una veste antica e sacrale.
Può essere dunque apprezzata da chi, come nel mio caso, è più vicino alle tematiche della filosofia del diritto che a quelle della filosofia tout court.
Leggendolo con gli occhi del giurista, più che con quelli del filosofo, il dialogo porta, a mio modestissimo parere, ad un’interpretazione controversa, fino a giungere provocatoriamente all’elogio di Eutifrone.
Socrate ed Eutifrone, i due protagonisti del dialogo, si
incontrano al palazzo dell’Arconte, uno dei magistrati di Atene. Il primo ci si
è recato perché ha saputo dell’accusa, avanzata nei suoi confronti da Meleto,
di empietà e corruzione di giovani. Eutifrone vi si è invece recato per
accusare il padre di omicidio, per aver fatto morire di stenti un servo che si
era a sua volta macchiato di un assassinio.
Secondo le Leggi di Atene un familiare poteva accusare un
proprio parente esclusivamente se aveva ucciso un altro parente.Socrate è dunque spiazzato da questa denuncia, ma Eutifrone gli risponde:
“è ridicolo, Socrate, che tu pensi che ci sia qualche differenza se l’ucciso è un estraneo o un familiare; a questo solo si deve badare : se chi ha ucciso lo ha fatto a ragione, oppure no. E se ha agito giustamente si lascia perdere, se no, si persegue, anche se l’uccisore è un tuo familiare e siede alla tua tavola.”
Il tema del dialogo, come si può evincere, ruota essenzialmente attorno alla giustizia: Socrate, con atteggiamento di apparente umiltà intellettuale, chiede a Eutifrone di definire ciò che secondo lui è empio e ciò che è "santo", visto che sembra averne cognizione, avendo egli addirittura denunciato il padre in un caso praeter legem, ossia oltre la fattispecie di legge:
“allora, o ammirabile Eutifrone, la scelta migliore per me è il diventare tuo scolaro”.
Socrate vuole imparare da Eutifrone tali concetti per poterli utilizzare per difendersi nel processo. Meleto lo ha accusato, tra le altre cose, anche di insegnare a pagamento (cosa che invece facevano i sofisti e non sicuramente Socrate, il quale diffondeva i suoi insegnamenti senza alcun compenso). Ma Socrate rivela ben presto l’ambiguità della sua intenzione di discente:
“se, gli direi, o Meleto, tu ammetti che Eutifrone è profondo su tali argomenti allora pensa pure che anch’io valuto rettamente e non intentarmi un processo; in caso contrario il processo devi intentarlo prima a lui che a me; a lui come maestro, perché corrompe i vecchi, me e suo padre; me, in quanto mi impartisce l’istruzione, suo padre, perché vuole rimproverarlo e punirlo.”
Per Eutifrone è assai semplice fornire una prima definizione di ciò che è santo e ciò che è empio:
“è santo quello che faccio ora, cioè trascinare in tribunale chi si rende colpevole o di omicidio o del furto di cose sacre o commette qualche altro reato simile, anche se costui è tuo padre, o tua madre o qualunque altro congiunto; mentre è empio non trascinarlo in giudizio.”
Socrate non si accontenta della definizione, in quanto essa fornisce soltanto degli esempi e non la sostanza di ciò che è santo e di ciò che è empio.
Ecco allora Eutifrone replicare:
“è santo ciò che è caro agli dèi, e ciò che non è caro non è santo.”
Da questo punto in avanti il dialogo entra in una dimensione sacrale, propria dei tempi, su cui, a mio avviso, si potrebbe anche soprassedere, almeno agli stretti fini di filosofia giuridica. Tuttavia è interessante osservarne la conclusione.
Socrate obietta che la definizione di ciò che è santo appartiene all’imponderabile. Non può essere stabilita come, ad esempio, un peso o una misura. Gli stessi dei potrebbero essere in disaccordo su ciò che è santo e ciò che non lo è, perché diversamente si dovrebbe ammettere l’uniformità di pensiero (e valutazione) tra gli dei, cosa che invece non accade.
E allora ciò che per un dio è santo può essere empio per un altro. Così facendo una stessa cosa sarebbe sia santa che empia, portando il ragionamento ad un’evidente aporia.
“E dunque tra gli dèi, o nobile Eutifrone, secondo il tuo discorso, ci sono giudizi differenti su quali cose siano giuste e belle e turpi e buone e cattive: infatti non sarebbero in discordia tra di loro se non dissentissero intorno a questi motivi.”
Ecco che Eutifrone corregge allora la sua definizione di santo: è santo ciò che è gradito a tutti gli dei. E in particolare, secondo Eutifrone, così accade nel caso dell’omicidio ingiusto.
“io ritengo, o Socrate, che nessuno degli dèi può dissentire da un altro, sul fatto cioè che debba pagare una pena colui che ha ucciso ingiustamente un altro.”
A questo punto, tuttavia, Socrate sposta il ragionamento su un altro aspetto: il santo è amato dagli dei perché è santo, oppure il santo è tale perché amato dagli dei?
Eutifrone propende per quest’ultima ipotesi a cui però Socrate risponde facilmente che in tal modo non si è definita l’essenza di ciò che è santo. Bensì soltanto ciò che accade al santo (essere gradito agli dei) e che per questo stesso motivo ne definisce la santità.
Eutifrone si blocca. E allora Socrate inserisce un tema diverso nel ragionamento: la giustizia è parte della santità o piuttosto viceversa? Detto in altre parole: o tutto ciò che è giusto è anche santo, o viceversa, tutto ciò che è santo è anche giusto. Eutifrone propende per quest’ultima versione, traendone spunto per fornire una nuova definizione di santità: santo è il prendersi cura degli dei, nel senso di render loro un servizio, come i servi fanno con i padroni.
Socrate utilizza l’ultima definizione di Eutifrone per avanzare (provocatoriamente) la propria ipotesi: la santità come scienza del pregare e del sacrificare. Con la preghiera si chiede l’aiuto degli dei e con il sacrificio li si ringraziano. La santità è quindi dunque una sorta di “commercio” con gli dei.
Eutifrone appoggia la definizione di Socrate, che però egli stesso si affretta a confutare: gli dei non necessitano di niente, dunque non avrebbero alcun giovamento da tale “commercio”.
Ecco che Eutifrone precisa che gli dei traggono giovamento dallo stesso atto di sacrificare, ciò che costituisce la santità. Dunque la santità è ciò che è dagli dei gradito.
Facile per Socrate obiettare di essere giunti alla definizione di partenza, dando così origine ad un circolo vizioso.
Eutifrone a questo punto, non sapendo come ribattere, se ne va e il dialogo termina.
In questo dialogo assistiamo alla tecnica socratica della
discussione, quella che lo stesso Socrate definì maieutica, riferendosi alla professione ostetrica: come la
levatrice estrae gradualmente il neonato dal corpo materno, in analogo modo Socrate
cerca di “dare alla luce” la verità.
In ogni caso, l’Eutifrone è un dialogo estremamente
interessante perché consente, come detto, riflessioni di filosofia giuridica.La richiesta di definire ciò che è santo apre il discorso sul tema della giustizia: cosa è giusto?
È giusto ciò che sta facendo Eutifrone, ossia denunciare il padre per l’omicidio di un servo in un caso praeter legem (essendo consentito farlo solo in caso di uccisione di un parente)?
Socrate dimostra, almeno in prima battuta, di avere una visione positivistica di ciò che è giusto, ed infatti si meraviglia che Eutifrone vada contro le Leggi (anche se in questo caso sembra più che vada oltre le leggi).
Eutifrone è un giusnaturalista ante litteram, tra i primi personaggi storici a individuare una forma di giustizia e di diritto che vada oltre le (esistenti) leggi positive: quella che lo porta a denunciare il padre anche in un caso in cui, secondo le leggi, non avrebbe potuto farlo. E ciò in virtù di una sua personale convinzione:
“è ridicolo, Socrate, che tu pensi che ci sia qualche differenza se l’ucciso è un estraneo o un familiare; a questo solo si deve badare : se chi ha ucciso lo ha fatto a ragione, oppure no. E se ha agito giustamente si lascia perdere, se no, si persegue, anche se l’uccisore è un tuo familiare e siede alla tua tavola.”
Socrate ha un’idea di giustizia aderente a quella del positivismo giuridico, anche se forse lo si evincerà in modo più netto nel Critone, quando rifiuterà l’evasione, prospettatagli dal suo discepolo per sfuggire alla condanna a morte, in quanto ritenuta ingiusta.
Ingiusta perché contraria ad una sentenza ed alle leggi di Atene.
E allora, da parte mia, un encomio a Eutifrone, il quale, non va dimenticato, si sta limitando a presentare una denuncia, che verrà esaminata e giudicata dal magistrato. Eutifrone segue la procedura dettata dalle leggi volendo con essa procedura sovvertire queste ultime, almeno nella parte che crede non essere conforme a giustizia. Eutifrone non è quindi un rivoluzionario, assolutamente. E un uomo che cerca, in modo pienamente lecito e rispettoso, di far trionfare un ideale di giustizia naturale.
L’encomio ad Eutifrone non si accompagna al biasimo di Socrate, tutt’altro.
Semplicemente i due uomini si muovono su ambiti diversi: Socrate è alla ricerca della verità ultima su ciò che sia giusto (o santo). Sull’essenza della giustizia e della santità. Ma lo fa a titolo di pura speculazione intellettuale, senza pensare di discostarsi dall’ambito delle leggi di Atene, che rispetta pienamente.
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