15 settembre 2014

Addio alle armi, di Ernest Hemingway

Addio alle armi (A Farewell to Arms), di Ernest Hemingway

Anno di prima pubblicazione: 1929

Edito da: Mondadori

Voto: 7/10

Pagg.: 320

Traduttore: Fernanda Pivano

___

Secondo romanzo di Ernest Hemingway, dopo il successo di Fiesta – The Sun Also Rises, A Farewell to Arms è ispirato, come molte altre sue opere, da vicende biografiche.

L’alter ego dell’Autore è il tenente Frederic Henry, assegnato alla Croce Rossa sul fronte italiano durante il primo conflitto mondiale. Ferito al ginocchio da un’esplosione, viene mandato a curarsi all’ospedale militare americano di Milano, dove comincia una intensa storia d’amore con l’infermiera inglese Catherine. Una volta guarito, decide di tornare al fronte: giusto in tempo per assistere alla disfatta di Caporetto e alla conseguente disordinata ritirata dell’esercito italiano fino al Piave.
Dopo aver rischiato la fucilazione per aver abbandonato il suo reparto (circostanza punita con la morte dalla legge marziale), fugge a Milano per recuperare Catherine, che aspetta un bambino da lui. Da Milano al Lago Maggiore (Stresa), quindi in Svizzera (Montreux e Losanna), per sottrarsi alla cattura e dare al nascituro un posto sicuro in cui nascere. Ma l’epilogo sarà drammatico.
Ciò che differisce tra l’esperienza reale di Hemingway sul fronte italiano e le vicende romanzate di Frederic Henry, è innanzitutto il periodo di riferimento: Hemingway arrivò in Italia come autista di ambulanze della Croce Rossa (dopo essersi arruolato giovanissimo - aveva soltanto diciotto anni - ed esser stato scartato dai reparti combattenti), soltanto nel 1918.
Non assistette dunque in prima persona alla disfatta di Caporetto e alla conseguente ritirata, ma ne apprese i resoconti da soldati che vi avevano partecipato.
È invece reale la sua esperienza in prima linea, ove era stato inviato su sua esplicita richiesta e dove fu ferito dallo scoppio di una bombarda austriaca.
Forse per modestia, Hemingway non attribuisce al suo alter ego letterario il gesto eroico che gli valse la medaglia d’argento al valor militare dell’esercito italiano: dopo l’esplosione, infatti, fu ferito una seconda volta, da proiettili di mitragliatrice, mentre portava in salvo a spalle un ferito.
Detto per inciso, vengono i brividi se si pensa che un futuro premio Nobel aveva rischiato diverse volte di perdere la vita al fronte, quando ancora era diciottenne.
La cosa non può che far pensare a quanti talenti le guerre portino via con sé: enorme tributo di uomini e idee, sacrificati sull’altare della stupidità umana.
Corrisponde alla biografia hemingwayana la degenza all’ospedale americano di Milano, dove effettivamente conobbe un'infermiera (che era però americana di origine tedesca) con cui avrà una breve storia d'amore (ma non un figlio).
È da questo momento che le vicende reali dell’Autore iniziano a discostarsi da quelle raccontate nel romanzo, siccome Hemingway non tornò sul fronte che a guerra finita, e non fuggì in Svizzera né rischiò la fucilazione.
Scritto dieci anni dopo la fine della prima guerra mondiale, nel 1928, il libro fu subito molto apprezzato dalla critica (è stato addirittura definito il Romeo e Giulietta della modernità). Eppure l’Hemingway maturo si è sempre rivolto con un certo disprezzo a questa sua opera giovanile, forse per una sorta di rigetto dell'esperienza di guerra.
Il romanzo fu messo al bando dall'Italia fascista perché descriveva (talvolta con un velato sarcasmo) una delle disfatte militari più clamorose dell’esercito italiano dai tempi dell’unità. Ufficiali inetti mandavano a morire migliaia di giovani a causa della loro incompetenza. Le caotiche scene della ritirata, inoltre, denotavano uno scarso spirito combattivo degli italiani, che mal si rapportava con la propaganda e i proclami del Ventennio.
Il tema dell’antimilitarismo è forte in tutto il romanzo, anche se emerge soprattutto nella parte antecedente alla fuga in Svizzera: così come il giovane Hemingway partì entusiasta, da volontario, per la guerra, anche il giovane Henry muta soltanto con il tempo le proprie convinzioni, arrivando infine ad odiare la guerra e tutto ciò che vi era collegato.
La fuga è il necessario corollario, anche se permane in Frederic un vago senso di colpa, dovuto più che altro al fatto di aver abbandonato i compagni d’arme:
<Non parlarmi di guerra> dissi. La guerra era molto lontana. Forse non c’era nessuna guerra. Non c’era guerra qui. Allora capii che per me era finita. Ma non avevo la sensazione che fosse proprio finita. Avevo la sensazione di un ragazzo che pensa a ciò che sta succedendo in un certo momento nella scuola che ha marinata.
La guerra diventa metafora interscambiabile del duro mestiere di vivere, a maggior ragione dopo il tragico finale:
Questo si faceva. Si moriva. Non si sapeva di cosa si trattasse. Non si aveva mai il tempo di imparare. Si veniva gettati dentro e si sentivano le regole e la prima volta che ci acchiappavano in fallo vi uccidevano. Oppure vi uccidevano gratuitamente come Ajmo. O vi davano la sifilide come a Rinaldi. Ma alla fine vi uccidevano. Ci si poteva contare. Giratevi intorno e vi uccidono.
Nella parte centrale emerge il secondo grande tema del libro, quello dell’amore tragico: non a caso A Farewell to Arms è traducibile letteralmente sia come Addio alle armi, che come “Addio alle braccia”, intese come le braccia dell’amata che spirerà nel vano tentativo di dare alla luce il figlio tanto atteso.
Il romanzo inizia con uno stile molto particolare, vorticoso e cerebrale. Hemingway esaspera fin dal principio la tecnica del flusso di coscienza (resa celebre da James Joyce e Virginia Woolf) e la prosa ne risulta quasi una cantilena, con risultato spesso assai suggestivo:
Cercavo di parlare della notte e della differenza tra la notte e il giorno e come la notte fosse meglio a meno che il giorno fosse molto limpido e freddo e non mi riusciva di spiegarmi; come non mi riesce adesso. Ma se lo avete provato lo sapete.
Abbondano le ripetizioni, che conferiscono tuttavia ritmo e fascino ai monologhi e alle descrizioni, rigorosamente in prima persona:
Avevo bevuto una quantità di vino e poi caffè e Strega e spiegavo, pieno di vino, come noi non facciamo mai le cose che desideriamo; non le facciamo mai.
Eppure qualche volta Hemingway esagera e le ripetizioni risultano decisamente cacofoniche:
Giunsi sulla strada, vidi delle truppe che scendevano la strada. Zoppicai lungo il ciglio della strada e mi passarono accanto senza accorgersi di me. Era un distaccamento di mitragliatrici diretto al fiume. Proseguii lungo quella strada.
Dopo la breve apparizione nella parte iniziale, la tecnica del flusso di coscienza raggiunge l’apice nel finale, in due bellissimi passaggi - tra i più belli dell’intera narrazione - in cui Frederic si strugge per le cattive condizioni di salute di Catherine, derivanti dall’imminente parto:
E se morisse? Non morirà. Non si muore più di parto, oggigiorno. Questo era quel che pensavano tutti i mariti. Sì, ma se morisse? Non morirà. Sta soltanto male. Il primo parto di solito è lungo. Sta soltanto male. Dopo si dirà come stava male, e Catherine dirà che non stava poi tanto male. Ma se morisse? Non può morire. Sì, ma se morisse? Non può ti dico. Non fare lo scemo. È soltanto un brutto momento. È soltanto la natura che le fa passare un inferno. È solo il primo parto, che è quasi sempre lungo. Sì, ma se morisse? Non può morire. Perché dovrebbe morire? Che ragione c’è perché muoia? Deve soltanto nascere un bambino, il sottoprodotto di belle nottate a Milano. Dà del disturbo a nascere e poi lo si cura e magari gli si vuol bene. Ma se morisse? Non morirà. Ma se morisse? Non morirà. Sta bene. Ma se morisse? Non può morire. Ma se morisse? Eh, allora? Se morisse?
Condizioni che peggiorano dopo il parto e la morte del bambino, fino al drammatico epilogo della morte di Catherine:
Sapevo che sarebbe morta e pregavo che non morisse. Non lasciarla morire. Oh Dio, per favore non lasciarla morire. Farò tutto quello che vuoi se non la lasci morire. Ti prego, ti prego, ti prego, Dio caro, non lasciarla morire. Dio caro, non lasciarla morire. Ti prego, ti prego, ti prego, non lasciarla morire. Dio, ti prego, non farla morire. Farò tutto quello che vuoi se non la lasci morire. Hai preso il bambino ma non lasciarla morire. Hai fatto bene ma non lasciarla morire. Ti prego, ti prego, ti prego, Dio caro, non lasciarla morire.
Ho trovato personalmente grandioso (come sempre) lo stile diretto e scorrevole di Hemingway, condito da dialoghi velocissimi, che conferiscono ulteriore rapidità alla narrazione, vero marchio di fabbrica dello scrittore di Oak Park (uno stile che ha utilizzato non solo per opere di narrativa come Fiesta, ma anche per libri pseudo-saggistici come Morte nel pomeriggio o per il diario della sua esperienza di caccia in Verdi colline d’Africa).
La seconda parte del romanzo, con il resoconto della storia d'amore tra Frederic e Catherine, risulta tuttavia troppo pesante: eccessivamente sdolcinata, mielosa. L’atteggiamento di Catherine è a tratti fastidioso e poco si confà alla dignità della donna del Novecento, post-bovarista.
Molto meglio, invece, la narrazione delle vicende al fronte (anche quelle non direttamente ispirate alle sue vicende reali, ma che, ciò nonostante, Hemingway ha saputo ricostruire con un realismo sorprendente).
Le opinioni sono contrastanti e molti sosterranno l’esatto contrario, ma personalmente ricorderò Addio alle armi più riuscito come romanzo di guerra che come drammatica storia d’amore, pur toccante.

2 commenti:

Unknown ha detto...

Lo sto leggendo in questi giorni. Stra-concordo sul fatto che la parte incentrata sulla storia d'amore appesantisca un po' il libro, mentre quella sulla fuga dal fronte fila via come una barchetta sul lago :-)

Vincenzo ha detto...

ciao Paolo! se ti interessa (e se non l'hai già visto), il film tratto dal libro (quello del '57 con vittorio de sica e sordi) si trova su youtube!...
così ci ricolleghiamo sul tema cinematografico :) ciao