19 settembre 2014

Verdi colline d'Africa, di Ernest Hemingway

Verdi colline d'Africa (Green Hills of Africa), di Ernest Hemingway

Anno di prima pubblicazione: 1935

Edito da: Mondadori

Voto: 5/10

Pagg.: 256

Traduttori: Attilio Bertolucci e Alberto Rossi

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Verdi colline d’Africa è il memoriale del primo safari di caccia grossa in Africa a cui partecipò Hemingway.
Il viaggio fu compiuto tra il 1933 e il 1934, tra Kenya e Tanzania, assieme alla moglie Pauline, che nel libro è “affettuosamente” chiamata P.V.M. - Povera Vecchia Mamma (P.O.M. - Poor Old Mama in inglese).
Con il consueto stile asciutto e diretto, privo di orpelli, aggettivi inutili e frasi ridondanti, ma condito da dialoghi veloci e in cui non è riportata, se non di rado, la persona che parla, l’Autore di Oak Park racconta le lunghe giornate trascorse in mezzo alla savana per cercare di abbattere, volta per volta, un leone, un rinoceronte, un bufalo, un kudù, un’antilope nera.
Un vero e proprio diario di viaggio, in cui la sola finzione sembrerebbe il nome di fantasia attribuito ad alcuni dei personaggi.
In compagnia della guida Jackson Phillips detto “Pop” (trattasi di Philip Percival, a cui il libro è dedicato) e di altri accompagnatori indigeni, Hemingway è alla continua ricerca della bestia più bella e più grande, quella la cui pelle o le cui corna meglio figurerebbero rispettivamente sul pavimento o sul muro di casa, sua o di qualche amico.
La rivalità con l’altro cacciatore del safari, Frank (aka Charles Thompson), accompagnerà l’intero resoconto: una stucchevole ma mai esplicita gara a chi abbatterà la bestia più grossa, con le corna più lunghe o il muso più bello.
Che Hemingway non si facesse grandi scrupoli di coscienza nel rapporto con gli animali lo si sapeva già da Fiesta e da Morte nel pomeriggio, in cui aveva a più riprese dichiarato il suo viscerale amore per le corride.
Eppure, in Verdi colline d’Africa questo cinismo verso il mondo animale sembra raggiungere l’apice.
In entrambi gli “sport”, se così vogliamo definire il safari di caccia e la corrida, il fine ultimo è l’uccisione dell’animale.
Ma se in Morte nel pomeriggio Hemingway aveva fornito per la corrida una sua personale giustificazione morale (più o meno biasimevole, ma che io personalmente avevo trovato convincente), basata su una visione tragica e drammatica dell’esistenza e della morte, messa in scena in quella che è a tutti gli effetti una rappresentazione culturale della tragedia della morte dell'animale, in Verdi colline d'Africa la narrazione della caccia si fa apatica e fine a se stessa.
Come ha efficacemente dichiarato il grande critico Edmund Wilson (che peraltro era amico di Hemingway), "l'unica cosa che impariamo sugli animali è che Hemingway vuole ucciderli".
E in effetti l'Autore parla della morte con una leggerezza ed un cinismo che sembrano lontani anni luce dalla rispettosa riverenza mostrata in Morte nel pomeriggio:
"<E' un kudù. Ha diritto di ucciderne un altro.>
<Ciaro e le guide dicono che c'era un altro maschio, bellissimo e con una testa stupenda.>
<Benissimo, l'ammazzerò io.>
<Purché ritorni.>
<E' una bella cosa che ne abbia preso uno> disse P.V.M.
<Scommetto che adesso prenderà il più grosso kudù che si sia mai visto> dissi.
<Lo spedisco con Dan al paese delle antilopi nere> disse Pop. <Questo era il patto. Il primo a uccidere un kudù deve essere il primo a tirare alle antilopi nere.>
<Bene.>
<Appena avrai ucciso il tuo kudù, ci recheremo là anche noi.>
<D'accordo.>"
In qualche striminzito passaggio emerge un debolissimo e poco convincente tentativo di giustificazione (ma a dire il vero Hemingway non cade quasi mai nella trappola della excusatio non petita), insieme ad una sorta di codice etico, invero poco credibile, del cacciatore.
Quel cacciatore che si strugge l'animo se colpisce una femmina (l'etichetta sembrerebbe imporre di sparare solo ai maschi adulti di grosse dimensioni) o se ferisce un animale senza ucciderlo, torturandolo con una morte lenta nel caso in cui esso riesca a fuggire alla cattura dopo il ferimento, andando a morire chissà dove:
"Averlo colpito senza ucciderlo era stata una gran mascalzonata. Non m'importava uccidere un animale, qualunque fosse, purché lo uccidessi di netto, tanto dovevano morire lo stesso e la mia interferenza nelle uccisioni notturne e stagionali che avvenivano senza tregua era minima, non mi lasciava nessun senso di colpa. Mangiavamo la carne e conservavamo pelli e corna. Ma mi sentivo nauseato in fondo all'anima per questa antilope maschio; e per di più la desideravo, la desideravo con tutta l'anima, più di quanto non volessi ammettere."
E' il primo libro (se si esclude Morte nel pomeriggio, che ha un taglio saggistico) in cui Hemingway non si cimenta con una storia d'amore. Un tema che gli aveva portato i maggiori encomi sia con Fiesta che con Addio alle armi (a parte qualche isolato caso di critici che, per quest'ultimo libro, avevano preferito il resoconto di guerra alla storia d'amore, vedi lo stesso Wilson). 
L'editore si sentì di fare una precisazione su tale aspetto con un'avvertenza: "Chiunque non vi trovi sufficienti interessi amorosi ha piena facoltà, leggendo, di inserirvi qualsiasi interesse amoroso egli, uomo o donna, abbia al momento. L'autore ha cercato di scrivere un libro completamente vero per vedere se il profilo di una regione e l'esempio di un mese di vita descritti con fedeltà possano competere con un'opera di fantasia".
Esperimento decisamente non riuscito dato che i critici, quasi all'unanimità, hanno stroncato quest'opera, giudicandola in molti casi quale suo peggiore libro in assoluto.
Il fatto che Hemingway avesse azzardato, all'interno delle pagine di Green Hills of Africa, una caustica derisione dei critici letterari, definiti alla stregua di pidocchi che strisciano sulla letteratura, sicuramente non ha aiutato. Ma questo libro è francamente molto debole di suo, senza che tale opinione abbia, per il vero, potuto incidere più di tanto. Non fosse per lo splendido stile di scrittura hemingwayano, per quella prosa impeccabile, sarebbe addirittura impresentabile.
Le uniche pagine che mi hanno sollevato da una noia viscerale, a causa di resoconti che saranno stati tanto emozionanti per chi li ha vissuti in prima persona quanto distanti e tediosi per il lettore medio, sono quelle in cui l'Autore discute di letteratura con un austriaco incontrato per caso da quelle parti.
Una frase, in particolare, mi ha trovato particolarmente d'accordo:
"Tutta la letteratura americana moderna viene fuori da un libro di Mark Twain: Huckleberry Finn. (...) il nostro libro più bello, e tutto quanto è stato scritto in America viene di lì: prima non c'è niente e dopo niente che lo valga".
Ma è una goccia nell'oceano, perché, dopo quelle poche pagine nella parte iniziale, si torna su temi letterari soltanto sporadicamente.
Tutto il resto del tempo è dedicato a parlare, cinicamente, di animali che muoiono, di quanto sia bello sparare loro e dell'invidia per colui che ha abbattuto la bestia dalle corna più lunghe.

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