28 settembre 2014

In Patagonia, di Bruce Chatwin

In Patagonia, di Bruce Chatwin

Anno di prima pubblicazione: 1977

Edito da: Adelphi

Voto: 8,5/10

Pagg.: 264

Traduttore: Marina Marchesi

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"La Patagonia!.. è un'amante difficile. Lancia il suo incantesimo. Un'ammaliatrice! Ti stringe nelle sue braccia e non ti lascia più”.
Leggere un grande libro, per quanto mitico possa essere e per quanto se ne possa aver sentito parlare, non può non riservare grandi sorprese.


“In Patagonia” non sarà forse “il libro simbolo di tutti i viaggi”, come afferma l’editore nella quarta di copertina calcando un po’ troppo l’entusiasmo. È però sicuramente l’archetipo del diario di viaggio contemporaneo, ma anche molto di più.
Per Chatwin il viaggio è un pretesto per raccontare storie e per indagare su un passato misterioso. Questa è la sorpresa più grande che si ha leggendo “In Patagonia”.


Il Chatwin bambino sognava la Patagonia da dove proveniva quel frammento di pelle di “brontosauro”, che in realtà era il milodonte cileno:
Alla morte della nonna finì buttato via, e io giurai che un giorno sarei andato a cercarne un altro per rimpiazzarlo”.

Il Chatwin adolescente, in tempo di guerra fredda, sognava la Patagonia come posto sicuro, come rifugio per sottrarsi all'autodistruzione umana:
Nessuno vorrebbe lasciar cadere una bomba atomica sulla Patagonia”.

Il Chatwin adulto concretizza la Patagonia come viaggio per ricercare i propri legami con il passato… e cercare se stesso:
Il mio Dio è il Dio dei viandanti. Se si cammina con abbastanza energia, probabilmente non si ha bisogno di nessun altro Dio”.

Meno on the road di quanto si possa pensare, il romanzo di Chatwin acquista spesso la veste di un saggio con caratteri storico-enciclopedici. Un grande lavoro di ricerca e di consultazione di fonti è alla base di lunghe digressioni sull’origine del nome “Patagonia”, piuttosto che sul ritrovamento dei resti del milodonte nel fiordo di Ultima speranza.
Chatwin aveva da tempo in progetto di scrivere un trattato sul nomadismo, che analizzasse la pulsione umana verso gli spazi aperti e il movimento, l’avversione per la stanzialità. Un’opera mai realizzata, sebbene l’ideale di fondo che lo muoveva si possa riscontrare in molti suoi scritti, alcuni dei quali racconti postumi nel saggio “Anatomia dell’irrequietezza”.


Il tema del viaggio è quasi un contorno di un generale spirito asetticamente psicologico che permea ogni frase, ogni avventura narrata.
Tra le vicende riportate da Chatwin, quelle del Re di Araucania e Patagonia, la fuga di Butch Cassidy e Sundance Kid, le rivolte sociali del ‘900. Ma anche tante storie di gente del posto, che ci restituiscono la sensazione della Patagonia quale lontano, malinconico e multietnico micromondo.
E poi, ovviamente, Chatwin ci racconta la storia di Charley Milward, il parente avventuriero che aveva mandato alla nonna quel frammento di pelle “spesso e coriaceo, con ciuffi di ispidi peli rossicci”, che tanto aveva solleticato la sua immaginazione da bambino.

Il viaggio nella sua dimensione umana: storie locali più che mera descrizione di luoghi. Eppure il luogo (o il non luogo) è protagonista assoluto in quanto catalizzatore, ispiratore di tutte quelle esperienze e sensazioni.

Mentre l'autobus attraversava il deserto, guardavo assonnato i brandelli di nuvole d'argento che si spostavano in cielo, e il mare grigio-verde di sterpaglia spinosa sparsa sulle ondulazioni del terreno e la polvere bianca che il vento sollevava dalle saline e, all'orizzonte, la terra e il cielo che si fondevano, mescolando e annullando i loro colori”.


Vento implacabile, che ti porta via. A volte senti un camion, sei sicuro che sia un camion, ma è solo il vento”.

Chatwin ispira un'idea diversa, molto concreta, di viaggio: quella di avere uno scopo, per quanto effimero e futile (ritrovare il frammento di pelle di milodonte). Uno scopo che è forse in realtà soltanto un pretesto. Ma di pretesti, del resto, ci nutriamo ogni giorno.
Lo stile di Chatwin è asciutto, asettico, con una particolarità importante: la capacità di narrare restando sostanzialmente al di fuori, evitando i personalismi. Qualcosa di sicuramente atipico per un diario di viaggio.
Un libro che cattura, senza che si possa dire bene per cosa, e forse questa è una delle sue forze.

In Patagonia ha un fascino magnetico.

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